Riccardo Signori, il Giornale 22/3/2013; Oscar Eleni, il Giornale 22/3/2013, 22 marzo 2013
CIAO PIETRO MENNEA, EROE SOLITARIO CAMPIONE DELL’IMPOSSIBILE
L’uomo degli altipiani della vita se n’è andato in un lampo. Coerente con se stesso, coerente con la sua storia. Pietro Mennea correva in pista sulle distanze più veloci, nella vita faticava sulle lunghe distanze infilandosi nell’infernale saliscendi che ti fa sentire la voglia di sofferenza, eppoi la voglia di levare il dito contro tutti.Un’altra sua specialità. Era nero dentro, lo raccontò a Muhammad Alì che stupì nello scoprire che l’uomo più veloce della terra era bianco. Bianco, brutto e cattivo, ma di una cattiveria agonistica. E ti tuffi in Gianni Brera che lo tocca sulla crapa e gli dice: ragazzo, tu vieni dalla Mesopotamia. Ma poi si innamora di quello che in serata di scarsa luna sarebbe stato uno stortignaccolo italiano, e in giorno di grazia diventò la fatica esaltata nel dolore, o anche lo sberleffo di Apollo che non ti volle suo simile.
Mennea è morto nel primo giorno di primavera, proprio come sua madre tre anni fa. Chissà, invece, quante volte gli sarà piaciuta quest’aria che annunciava il ritorno al suo mondo sotto le stelle: pista e tartan, gare e sfide. Diceva: «Non smetterò mai di correre, perchè la corsa non finisce mai». Cinque olimpiadi, da Monaco 1972 a Seul 1988, per dimostrarlo in pista. Poi tutti in pista nella vita. Urticante e attraente. Non era un simpatico naturale, ma non potevi negargli la stima. Tormentato e tormentoso. Correva e sgomitava, secchione in pista e secchione fuori pista: ori e allori, lauree e grande cultura, avvocato e commercialista, tante facce di un mondo che conquistò a modo suo. Aveva il talento di quelli che sanno di non avere il talento. Modesto, infernale nella primitiva lotta contro la fatica. Brera lo adottò: guida noi brutti alla conquista. Con il professor Vittori si è sempre dato del Lei. C’è modo e modo di essere diversi.
Mennea è rimasto un campione diverso. Oggi lo piangeranno in tanti, tutti, ma fino a ieri dove avevate messo Mennea Pietro eppoi Paolo, due apostoli in un uomo solo? Un campione da tenere nella bacheca, ma da lasciare navigare solitario nel suo mare azzurro increspato della vita. Coerente che andava a corrente: il camminare un po’ altezzoso in punta di piedi, quella parlata che mitragliava sentenze e ricordi, e che sottintendeva sempre il ditino alzato, erano scarica elettrica. Non c’era convenzionalità, ma convenzioni da rispettare nel nome del suo Io. Amava quell’Io che significava determinazione ad arrivare, primeggiare nel nome di uno sport che immaginava pulito. Raccontava: «Se oggi la gente vedesse i filmati dei miei allenamenti si spaventerebbe». Un giorno gli scappò di far due conti: 5482 giorni di allenamento, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, tre europei, medaglie europee e mondiali, il primato del mondo dei 200 metri (19”72) durato un’eternità, ultimo recordman mondiale bianco dello sprint, 5 olimpiadi e 4 finali. Non c’era bisogno di guardarsi allo specchio per sentirsi soddisfatto di se stesso.
Dici Mennea e basta la parola: è stato il migliore degli italiani possibile, ma il peggiore da cui prendere esempio. Ha spiegato che nulla è proibito, basta volerlo, sfruttare la fatica, usare la fatica per sognare. «E se avessi avuto il fisico di Bolt i miei record sarebbero stati ben altri», raccontava quando non trovava freni. Mennea è figlio di un’altra atletica e forse di un’altra Italia. Quella di chi ha la testa prima del cuore, il cuore prima delle gambe, le gambe prima del narcisismo, fatica da bestia e monacale adesione alle sofferenze imposte dal tecnico. Ci ha detto che non è necessario essere Einstein, ma bisogna essere Mennea. Figlio di un sarto e di una casalinga, terzo di cinque figli ed ha sempre corso: in bici per andare a giocare a pallone. A piedi contro le auto quando gli serviva raccogliere qualche soldo: sul vialone di Barletta sfidava sui 50 metri Lancia, Alfa, Porsche. Raccontava: «Io da fermo e la macchina a motore spento. Oppure io 10 metri più avanti e la macchina a motore acceso. E, se vincevo, mi portavo a casa 1000 lire».
Lo chiamavano la Freccia del sud, in realtà era la Freccia d’Italia. E adesso sarà anche un Frecciarossa, visto che (un po’ in ritardo) gli intitoleranno un treno. Si cibava della rabbia di quelli del Sud,lo spiegò a Steve Jobs.«La fame bisogna averla dentro». Tutto cominciò inseguendo un tal Pallamolla e l’insoddisfazione non si placò finchè non riuscì a batterlo. Poi ci furono Alan Wells, Don Quarrie e Valeri Borzov, i grandi avversari, i due ori degli europei 1978,la straripante rimonta a Mosca ’80: Wells tre metri avanti, Pietro penultimo all’uscita dalla curva. Ma poi va, va, e va. Diceva Vittori: bastava guardare la sua faccia.
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FRECCIA PER SEMPRE -
Una vita insieme, nati per amarci tanto e odiarci qualche volta, perché il tipo, anche prima delle tante lauree, era davvero testardo. Primo incontro sulla pista di Lugano dove Pietro Paolo Mennea, nell’Italia B, aveva salutato, con rammarico, la nazionale di atletica italiana che volava verso le Olimpiadi del Messico. Lui cominciava una storia da grande re delle piste, molti di noi scoprivano il mestiere che volevano fare. Lui correva fortissimo, a noi bastava camminare per vederlo soffrire, sudare, imprecare, vincere, stravincere 350 giorni all’anno.
Quando voleva dare qualcosa di più ti lasciava sedere nella stanza dei massaggi, e allora raccontava la sua vita, badando sempre al tempo. Non poteva arrivare in ritardo all’allenamento nel sacro convento di Formia, all’università di Carlo Vittori, l’uomo di tutte le rivoluzioni nella metodologia del lavoro su un campo sportivo, calcio o atletico non contava, ateneo che ha fatto storia dello sport nel mondo perché quando il professore, nei convegni, raccontava ai colleghi, anche agli increduli americani, delle sedute di lavoro con il ragazzo di Barletta, si sentiva sempre domandare, alla fine, se il “purosangue" era morto.
Vita grande, vita strana, entusiasmante con questa strana coppia che andava all’assalto dei luoghi comuni, dimostrando che potevano cambiare la via metodologica del training, affermando con i fatti che un velocista poteva anche allenarsi molto, poteva andare ben oltre il talento naturale. Spettacolo in pista, affascinante vita in comune seguirli fuori dal campo, anche quando litigavano, anche quando il Prof arrivava con qualche minuto di ritardo sul campo e vedeva Pietro indicare l’orologio.
Erano nati per l’impresa. Accidenti se ci riuscirono alla faccia di considerava Mennea uno stortignaccolo, pur inchinandosi, come il grande Brera, a quell’ Aristotele così diverso da Platone Berruti re di Roma 1960. Da Lugano 1968 a Helsinki 1971, i primi europei per lui e per noi, a Seul 1988, attraversando il cerchio di fuoco, sfidando e battendo gli americani, sfiorando Borzov, mettendo a sedere tanti pretendenti al trono. La magnifica e strana coppia della nostra atletica viveva nel tumulto. Erano insieme all’esordio olimpico di Monaco nel 1972 quando vinse il bronzo e svegliandosi la mattina dopo i festeggiamenti in un ristorante bavarese scoprì che sui tetti del villaggio olimpico c’erano i franchi tiratori incapaci, però, di impedire la strage degli atleti israeliani. Erano insieme a Montreal, Giochi del 1976, i primi per gli inviati di questo Giornale quando c’era da raccogliere e non ci furono medaglie, una rabbia mai nascosta che divenne pubblica quando Pietro, una settimana dopo, vinse al meeting di Viareggio con un tempo migliore di quello di Quarrie, vincitore in Canada.
Si inseguivano per soffrire insieme, per tarare il motore della vespa che Vittori cavalcava cercando di portarlo al massimo dei giri, finendo nei sacri fiumi di porpora quando il corridore superava il centauro che poi si giustificava dicendo di aver sbagliato ad inserire le marce. Mennea visse queste splendide baruffe culturali per tutta la sua vita sportiva, a Fiasconaro bastò un anno soltanto col Prof, record del mondo sugli 800 all’Arena di Milano, per scegliere altre colline del sudore.
L’Universiade al Messico, quel record mondiale di 19’72 del 12 settembre 1979, un primato rimasto imbattuto per 17 anni, ci fece scoprire il Mennea più indecifrabile. Noi impazziti cercando di far capire l’impresa alla redazione, lui bello e solare in mezzo al campo a dedicare l’impresa a muse misteriose. Anche quella volta non fu festa piena. Vittori era convinto che valesse 19’60 e allora altri fiumi di porpora. Non certo come quelli di Mosca dopo l’eliminazione in semifinale sui 100. Era una Olimpiade malvagia, boicottata, ma su Pietro si puntava tanto. Impossibile stanarlo dal villaggio, sentivi soltanto l’eco di quelle tormentate sedute che sembravano mettere in guerra spiriti nati per l’impresa. Ci pensò il grande Borzov a farlo meditare. Gli disse che lo vedeva vuoto, sperduto, e regalandogli l’orsetto mascotte chiamato Misha provò a rincuorarlo. Ci riuscì per davvero. Se al Messico aveva la corsia centrale, allo stadio Lenin gli toccò l’ottava corsia. Come per il record del mondo la prima parte fu problematica, vele da sistemare in curva, non fu un 10’34 come sui primi cento in altura, uscì sul rettilineo guardando molto da lontano la schiena del gallese Wells, in quel momento ecco fratello Pietro e la sua voglia di mordere come gli capitava sempre a tavola, 3 piatti di pasta al forno erano la dieta del campione pre gara, lasagne e acqua minerale, non gasata, Vittori non voleva. Rimontò, vinse, non fece nemmeno il 9’38 della seconda parte messicana, ma fu un meraviglioso 20’19 che divenne il caviale per tutta la missione