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 2013  marzo 26 Martedì calendario

Ha ragione Enrico Letta. La soluzione del «doppio registro» per formare un governo a guida Bersani è «molto complicata da spiegare»

Ha ragione Enrico Letta. La soluzione del «doppio registro» per formare un governo a guida Bersani è «molto complicata da spiegare». È anche molto complicata da capire, perché - semplicemente - non sta in piedi. Ameno di un accordo, che da sotto il banco dovrà essere certificato alla luce del sole entro giovedì, su tatticismi parlamentari che ne consentano un qualche avvio, forse con l’aiuto della Lega e del Movimento delle Autonomie, possibile solo se c’è il beneplacito di Berlusconi. Un governo di minoranza sull’economia, sulle politiche sociali e la moralizzazione della politica, a cui dovrebbero non si sa come affiancarsi larghe intese per le riforme istituzionali. Delle due l’una. O i numeri parlamentari ci sono, e il patto con Berlusconi è già nelle cose, per consentire almeno una non-sfiducia, oppure l’estremo tentativo di Bersani è in realtà un modo per dire: io a Palazzo Chigi (piuttosto improbabile) oppure (quindi) elezioni subito. Messa così, sarebbe l’atto finale di una lunga deriva. Il punto di non ritorno per un partito senza bussola da tempo. In assenza di un coup de théâtre che per ora sfugge, l’accanimento terapeutico di Bersani (su se stesso) e il tentativo di pescare voti in Parlamento mettendo un menu à la carte a disposizione di qualsiasi interlocutorestaportandodrittoall’implosionedeidemocratici. Con l’aggravante di aver temporeggiato rievocando la liturgia degli incontri con le parti sociali, dalle più rilevanti a quelle poco sopra la soglia della riconoscibilità, le quali hanno ripetuto com’era già ovvio che il paese è alla canna del gas. Lo sappiamo con certezza almeno dal 2009, quando in un anno rispetto al 2008, il Pil si ridusse di oltre il 5%, bruciando quasi la metà della ricchezza prodotta nei precedenti 10 anni. Dopo le cose non sono andate meglio. L’indizio di un avvitamento che sarebbe diventato mortale, per il Pd, lo si vede da tempo. È la diretta conseguenza di una strategia di totale chiusura all’interno, dell’ossessione di voler parlare soprattutto ai propri elettori tradizionali, paradossalmentecompensatadalmassimodell’eclettismo nelle alleanze esterne. Senza alcun distinguo. Senza disdegnare nessuno (dai radicali all’Udc, da Monti a Grillo, da Maroni a don Ciotti, da Vendola a Montezemolo, da Di Pietro a Grasso). Purché lontani dal nocciolo duro del partito. Qualsiasi cosa fuori. Muri alzati e tolleranza zero dentro. Dal 2010 in avanti, il Pd ha cercato di allearsi con l’Udc durante le regionali, mentre nel Lazio sosteneva Emma Bonino. Poi è arrivata la foto di Vasto, un matrimonio ufficializzato con la benedizione della Cgil. Saltando qualche passaggio, è venuto il momento del nuovo Centro montiano, alleato naturale prima delle elezioni. Per poi virare a 360 gradi e andare con il cappello in mano di fronte ai 5 stelle nel post-elezioni. Siamo ora alla ricerca, non tanto nascosta, di un accordoconiBarbarisognantidellaLega(sempre più sovraeccitati intorno al progetto della Macroregione del Nord e al conseguente abbandono al suo destino del Sud), con il benestare del Pdl (il cui aiuto tuttavia si continua pubblicamente a rifiutare). Ovviamente, ciascuna di queste «strategie» di coalizione ha comportato un nuovo «posizionamento». Dalla piena responsabilità verso i vincoli europei con Monti, al superamentodellasuaagenda,dalladifesadelle province ai tagli draconiani della politica. Eppure, nonostante questa strabiliante flessibilità, Bersani si dimostra inflessibile verso l’unica formula che parrebbe ragionevole al senso comune, e forse anche all’intuito di chi vede le cose dal colle più alto. Tantocheilbrevediscorso,stancoecrepuscolare,delsegretario,potrebbeaddiritturasuonare comeunfrenopreventivoalPresidenteNapolitano, il quale molto probabilmente proporrà, per salvare il salvabile, un governo di tutti e di nessuno,atempodeterminato,conobiettivibenprecisi diriformadelleregoleistituzionali.Unmessaggio forse più vero ma molto diverso da quello che Bersani aveva lanciato nella Direzione del 6 marzo: «Siamo alternativi al populismo. Siamo nelle mani del Presidente della Repubblica».