Piergiorgio Odifreddi, la Repubblica 26/3/2013, 26 marzo 2013
Il Novecento è stato il secolo dell’astrazione, nella matematica e nell’arte. Ma in entrambi i campi l’astrazione comporta dei rischi, e oltre un certo limite può portare alla dissoluzione totale del contenuto, e alla perdita completa del significato
Il Novecento è stato il secolo dell’astrazione, nella matematica e nell’arte. Ma in entrambi i campi l’astrazione comporta dei rischi, e oltre un certo limite può portare alla dissoluzione totale del contenuto, e alla perdita completa del significato. Recentemente la matematica ha sviluppato un’intera teoria della complessità, che ha potuto render conto parzialmente di questa tendenza. Dal punto di vista astratto, infatti, la differenza fra i fenomeni casuali e quelli che non lo sono si riduce al fatto che i primi non possono essere descritti in maniera semplice e compressa, e i secondi sì. Paradossalmente, dunque, più un’opera è complessa, più tende ad avvicinarsi alla casualità e a confondersi con essa. È il caso del free jazz in musica, o dell’espressionismo astratto in pittura, consistenti entrambi di strutture singolarmente irrepetibili, e collettivamente indistinguibili, che possono soltanto essere esibite, ma non descritte. Un esempio tipico è Luce bianca di Jackson Pollock, del 1954, che compare appunto sulla copertina del disco Free Jazz di Ornette Coleman, del 1961, da cui questo genere di musica prese il nome. La tela consiste semplicemente di un intrico di colori ottenuti facendo sgocciolare i pennelli sulla tela, così come il disco registra quaranta minuti di libere improvvisazioni di un doppio quartetto di musicisti. Luce bianca fu dipinta due anni prima che Pollock morisse, schiantandosi ubriaco contro un albero. E il titolo sta ad indicare che, come i colori si mescolano e perdono la loro identità nell’amalgama della luce bianca, così le pennellate e i suoni di questo punto d’arrivo dell’arte si riducono a un puro raggio abbagliante, quando non semplicemente a un abbaglio raggiante. Ma la matematica moderna ha imparato a mettere parzialmente ordine anche nel caos e nel caso, grazie alla teoria dei frattali: delle figure autosimili, cioè, in cui una o più parti hanno la stessa struttura del tutto. Una proprietà, questa, ben illustrata dalla copertina di Free Jazz, che dall’esterno lasciava intravedere attraverso un buco un riquadro dell’opera di Pollock, praticamente indistinguibile dall’intera tela mostrata all’interno. Volendo trovare figure autosimili, contenenti parti sempre più piccole, ma simili al tutto, non c’è bisogno di guardare lontano. Basta, ad esempio, rivolgersi a opere di Maurits Cornelis Escher quali Sempre più piccolo, del 1956, e Quadrato limite, del 1964. Un tentativo più radicale, ma meno riuscito, Escher lo fece nel 1956 in Galleria di stampe, cercando di realizzare un quadro che rappresenta una scena di cui esso stesso fa parte. L’idea era già venuta verso il 1320 a Giotto, nel retro del Polittico Stefaneschi, in cui si vede il committente che offre a San Pietro un modellino del polittico stesso. E venne di nuovo nel 1912 a Edmund Husserl, nel primo volume delle Idee per una fenomenologia pura, dopo aver visto a Dresda uno dei quadri seicenteschi di David Teniers, che riproducono la galleria di dipinti italiani dell’Arciduca Leopoldo. Oggi si parla al proposito di effetto Droste, perché a partire dal 1904 l’omonima produttrice olandese di cacao adottò sulle sue scatole l’immagine di un’infermiera, che teneva su un vassoio una copia della scatola stessa. Un trucco simile è stato usato, a partire dal 1921, dall’industria casearia francese La vache qui ritper il proprio logo, in cui una mucca che ride ha due orecchini che ripetono il logo stesso. Effetti di questo genere sono più facili da descrivere, che da realizzare. Non a caso, la letteratura abbonda di opere che contengono una parte che dovrebbe coincidere con l’opera stessa. Nell’Iliade di Omero, Elena ricama una veste di porpora che raffigura la storia del poema. Al termine del Ramayanadi Valmiki, i figli di Rama cercano rifugio in una selva, dove un asceta insegna loro a leggere su un libro che è, appunto, il Ramayana. Nel Mahabarata di Vyasa, il narratore incontra un amico e gli racconta il Mahabarata, che narra del poeta Vyasa che detta al dio Ganesh il Mahabarata, una storia che narra di un re che incontra il poeta Vyasa e si fa raccontare il Mahabarata. Nel Sogno della camera rossadi CaoXueqin, il protagonista prevede in sogno gli avvenimenti del romanzo. Nell’Amleto di Shakespeare, si mette in scena una tragedia che è pressappoco la stessa dell’Amleto. E così via. [...] Più in generale, strutture autosimili o telescopiche, a vari livelli, sono state usate sistematicamente nell’architettura religiosa e imperiale, sia orientale che occidentale. Se ne trovano esempi nelle piante delle città, come a Logone-Birni nel Camerun. Nei recinti dei complessi, come ad Angkor Wat in Cambogia. Nei tetti degli edifici, come alla Città Proibita di Pechino. Nelle torri dei templi, come al Kandariya Mahadeva di Khajurao. Nelle cupole delle chiese, come al Cremlino di Mosca. Nelle decorazioni dei soffitti, come all’Alhambra di Granada. E nei rosoni delle finestre, come a Notre Dame di Parigi. Dal canto loro, gli artisti sono stati condotti a rappresentazioni di natura frattale ogni volta che hanno cercato di disegnare o dipingere fenomeni di turbolenza, atmosferica o acquatica. Per limitarsi al giapponese Katsushika Hokusai, basterà ricordare, oltre alla celeberrima Grande onda al largo di Kanagawa (1810), le due serie Mille immagini del mare (1833-34) e Viaggio tra le cascate giapponesi (1834-35). Oggi le strutture autosimili si possono realizzare e visualizzare facilmente al computer, mediante i processi iterativi tipici dei frattali. Questi sono usati comunemente nella grafica computerizzata, per riprodurre gli oggetti naturali che ne esibiscono le caratteristiche: dalle scariche elettriche alle nuvole, dalle nubi ai monti, dai rami di pino alle foglie di felce, dai broccoli ai cavolfiori, dalle scaglie dei pesci alle squame dei serpenti, dalle contorsioni dell’intestino alle cavità dei polmoni, dalle fibre nervose alle circonvoluzioni del cervello. Quanto il computer fosse in grado di simulare artificialmente il naturale, apparve chiaro fin dal primo corso sui frattali, insegnato a Yale nella primavera del 1993. Posti di fronte a immagini estremamente realistiche di Ken Musgrave, gli studenti discussero vivacemente se e quali fossero fotografie, increduli che si trattasse solo di realizzazioni artificiali. In seguito vari artisti si sono specializzati nella creazione di paesaggi matematici: Anne Burns, ad esempio, che li chiama appropriatamente Mathscapes, “Matesaggi”. La prima esposizione di questo genere di applicazioni era stato il manifesto di Benoit Mandelbrot La geometria frattale della Natura, uscito in francese nel 1977, e in inglese nel 1982. Il retro di copertina riportava una Pianetizzazione frattale di Richard Voss, sorprendente per quei tempi. E poiché questa e altre immagini esibivano un’evidente connessione con l’arte, nei suoi “disconoscimenti” iniziali Mandelbrot si premurò di dichiarare: «competere con gli artisti non è per niente uno scopo del libro». E di aggiungere: «Non lo è neppure mostrare belle immagini, che sono uno strumento essenziale, ma solo uno strumento». Queste non richieste scusanti erano ovviamente dettate dalla preoccupazione che i manifesti aspetti artistici dei frattali potessero distrarre dai loro contenuti matematici. Puntualmente, l’estetica dei frattali catturò immediatamente l’attenzione dei curiosi e dei media. E presto ispirò una nuova forma d’arte, oggi popolare persino sulle T-shirt. © RIPRODUZIONE RISERVATA Esce oggi Abbasso Euclide! di (Mondadori pagg. 370 euro 22) Qui ne anticipiamo una parte