Roberto Giovannini, La Stampa 25/3/2013, 25 marzo 2013
LA RIVINCITA DELLA META’ TURCA "LA FINANZA OFFSHORE SI SPOSTI QUI"
Oggi la Cipro grecofona trema incollata alla televisione. Ma c’è un’altra Cipro che scrolla le spalle con disinteresse pensando ai guai di «quelli» e delle loro scassate banche. Interessano di più i risultati del campionato di calcio turco, o le elezioni che oggi designeranno il nuovo sindaco di Lefkosa. Lefkosa è la fetta di Nicosia (Lefkosia in greco) che si stende a nord della linea verde che dal 1974 divide la Repubblica di Cipro, membro dell’Unione Europea ed etnicamente greca, dalla Repubblica Turca di Cipro del Nord, l’entità politica che governa il 34% settentrionale dell’isola, riconosciuta soltanto dalla Turchia, dove vivono trecentomila turchi.
Quasi 40 anni fa l’esercito turco con la fulminea operazione Attila - scatenata dopo il colpo di stato organizzato dalla maggioranza etnica greca, con l’appoggio dei colonnelli fascisti che allora comandavano ad Atene - venne in soccorso del circa venti per cento di popolazione cipriota di origine turca. Dagli anni ’50, quando Cipro era una colonia britannica, tra le due comunità scorreva il sangue, tra omicidi mirati e massacri di civili. «Attila» scatenò un esodo di massa incrociato, creando due comunità etnicamente «pure» e separate dalla diffidenza se non dall’odio. Il fallimento del referendum del 2004 sul piano di confederazione tra l’entità turca e la Cipro membro dell’Ue steso da Kofi Annan ha prodotto una situazione surreale. I turchi votarono sì al 65%, sperando di beneficiare dell’europrosperità; i greci, per i quali la divisione e l’invasione è una piaga in suppurazione permanente, dissero no al 75%.
La città vecchia all’interno delle mura veneziane, dove vivono molti poverissimi immigrati provenienti dall’Anatolia, pullula di negozietti di maglie e scarpe taroccate. Muovendosi verso la periferia, le costruzioni sono più moderne, il tenore di vita appare dignitoso, sullo standard della Turchia «turistica». I più, come il gioielliere di Lefkosa Cenap Seygin, non mostrano alcun interesse per il travaglio dei vicini greci: «Non me ne importa niente - dice filosoficamente mentre mentre sorbisce un caffè turco, che a pochi metri si chiama caffè greco - per tanto tempo noi abbiamo avuto i nostri problemi, adesso loro hanno i loro problemi. È la vita».
E problemi la «Repubblica turca» ne ha moltissimi. La sua economia, a parte un po’ di produzione agricola, il settore del gioco d’azzardo, e il turismo vive dei trasferimenti a fondo perduto di Ankara, 600 milioni di dollari l’anno. Un terzo del bilancio «statale». Il reddito pro capite è la metà di quello della Cipro greca; il settore pubblico è gonfiatissimo, tutte le esportazioni e le importazioni devono passare per la Turchia visto l’embargo in atto. La Turchia sovvenziona, ma controlla tutto: come spiega il giornalista Mehmet Arsan, «nessuno sa in realtà se le decisioni sono prese qui o là: sicuramente i nostri politici, quando c’è una misura impopolare, dicono che è stata presa ad Ankara».
A nord ci sono ancora 40 mila soldati turchi. E dopo la prima ondata di colonizzatori, gente spedita più o meno forzatamente negli Anni 70 per occupare e le case abbandonate dei villaggi greci, sono arrivati dagli anni ’90 tanti immigrati «economici» in cerca di fortuna. «Sono cittadini di fatto di “seconda classe” - spiega in un caffè della splendida Famagosta (in turco Gazimagusa) il professor Erol Kaymak, docente presso la Eastern Mediterranean University - a differenza di noi turco ciprioti non hanno il passaporto di Cipro e il diritto di viaggiare nell’Ue. La popolazione turco cipriota ovviamente ne beneficia, ma non li vede di buon occhio: dicono che rubano posti di lavoro, che sono esageratamente religiosi e che non si integrano». Quanti siano - e il problema diplomaticamente è spinosissimo, visto dalla Cipro greca - nessuno lo sa. Forse 100mila, forse di più. E anche tra di loro gli immigrati mal si sopportano: il tassista Mehmet è venuto qui dieci anni fa da Antakya, ai confini con la Siria, ma dice che «ce ne sono troppi, vengono qui e al volante fanno tanti incidenti». In tutta l’isola - eredità britannica - si guida a sinistra.
Qualcuno pensa (o spera) che la crisi bancaria al Sud possa diventare un’opportunità per il Nord. «Ci aspettiamo che con la crisi economica dei greci sia possibile attirare qui più depositi bancari di russi e inglesi. È una scelta naturale, le nostre banche sono più solide e offrono rendimenti più elevati. Appena riaprono le banche di là, i risparmiatori sappiano che noi siamo distanti pochi metri», ha detto in un’intervista il ministro delle Finanze della «Repubblica turca», Ersan Tatar. Concorda, ironicamente, il professor Kaymak, nato e formatosi negli Usa: «Abbiamo bassi salari, non siamo riconosciuti internazionalmente, non siamo integrati nel sistema finanziario mondiale, i controlli sono inesistenti. Saremmo la piattaforma perfetta per la finanza offshore!».