Gian Guido Vecchi, Corriere della Sera 24/03/2013, 24 marzo 2013
BAGNASCO: «LA CHIESA VA RIFORMATA. FRANCESCO AUDACE COME GIOVANNI XXIII» —
«Isolarsi dal cammino del popolo di Dio è un rischio che va evitato e che papa Francesco evidentemente ha ben presente...». Il cardinale Angelo Bagnasco è tornato nella sua Genova dopo un periodo unico, anche per lui. Le congregazioni generali, il Conclave, l’inizio del pontificato. «Gli ultimi quaranta giorni hanno avuto l’effetto di imprimere alla Chiesa un’accelerazione imprevista che ha colto di sorpresa tutti, compresi i non credenti». Il presidente dei vescovi italiani sorride: «Francesco è un grande dono che il Signore ci ha fatto».
Eminenza, a Castel Gandolfo è accaduto un altro evento senza precedenti nella storia: il Papa è andato a pranzo dal suo predecessore. Come ha vissuto queste settimane?
«La rinuncia di Benedetto XVI, inedita e dolorosa, si è rivelata per quello che è: un gesto creativo che ha rimesso tutto in movimento, conducendo il mondo alla sera del 13 marzo, quando sulla loggia di San Pietro si è affacciato il nuovo papa Francesco. Alla fine, non è stata per nulla casuale la tempistica scelta. È come se il Papa ormai emerito avesse ideato e realizzato una sorta di esodo pasquale. Attraverso lo smarrimento provocato dalle sue dimissioni siamo giunti alla sorpresa del primo Papa sudamericano. Sono state settimane indimenticabili: ho sperimentato la vitalità della fede nei volti dei confratelli cardinali, che esprimono le molte sensibilità e le preoccupazioni di ogni angolo del pianeta; ma anche un crescendo di partecipazione da parte della gente comune che si è sentita chiamata in causa da quanto stava avvenendo».
Lei e gli altri cardinali avete avuto la percezione di una svolta nella storia della Chiesa?
«Si è percepito in modo forte il vento di Dio. Come se il soffio dello Spirito gonfiasse le vele della barca di Pietro per guardare l’orizzonte con fiducia rinnovata. E si è avuto conferma che la Chiesa è realmente un mistero per la sua capacità di rigenerarsi continuamente, di affrontare il nuovo, di riemergere dalle sue difficoltà, di continuare la sua missione di sempre che è quella di annunciare il Vangelo».
Si è parlato di riforma della Curia, l’impressione è che si vada verso una maggiore collegialità tra il Papa e i vescovi, magari un ruolo maggiore dei sinodi. È una esigenza avvertita tra voi vescovi diocesani? E che cosa significa per la Chiesa?
«Già Sant’Agostino diceva che la Chiesa è sempre da riformare, specchiandosi nel suo Signore. La prima riforma però non è quella delle strutture, ma quella delle singole persone. È per questo che l’anno in corso è stato dedicato alla fede. A partire da questa riforma personale viene di conseguenza anche un ripensamento della vita ecclesiale nei suoi diversi aspetti. Come ha detto efficacemente papa Francesco parlando al Corpo diplomatico: "Non si possono costruire ponti tra gli uomini, dimenticando Dio. Ma vale anche il contrario: non si possono creare legami veri con Dio, ignorando gli altri". Quanto più forte è la presenza di Dio nei singoli tanto più possibile diventa la comunione ecclesiale».
All’indomani dell’elezione, lei ha detto che Francesco ha «lo stile», ma anche «la capacità di governo» di Giovanni XXIII. Che cosa intendeva?
«Non conoscevo personalmente papa Bergoglio, ma durante i giorni delle Congregazioni generali ho avuto modo di apprezzarne le parole e di intuirne la personalità. È una persona calda e immediata, ma allo stesso tempo nitida e determinata. In questo senso mi è venuto di pensare a papa Giovanni XXIII che ha affascinato il mondo per il suo stile semplice, ma ha pure convocato il Concilio con l’audacia di un profeta».
Gesti e parole di papa Francesco sembrano richiamare la Chiesa alle origini, ai primi secoli. È così? E cosa significa questo per cardinali e vescovi, anzitutto, e per i fedeli in generale?
«Papa Francesco è già entrato nel cuore della gente. Non credo che ciò dipenda solo da un dato caratteriale. Mi sembra pure il riflesso di una profonda spiritualità che lo rende essenziale, sfrondando il campo da tutto ciò che è superfluo e costruito. Occorre tornare a questo genere di semplicità che proprio il suo nome Francesco ci rende ancor più familiare. Il povero di Assisi è riuscito a contagiare tanti perché si è liberato di ciò che lo appesantiva, a partire dalla scoperta dell’unico necessario che è Gesù Cristo».
Che cosa l’ha colpita di più in ciò che ha detto o fatto, nei primi giorni, il Papa?
«Sono rimasto colpito, la sera dell’elezione, dalla scelta delle preghiere. Il nuovo Papa ha proposto quelle più comuni della vita cristiana. Quando ho sentito il Padre Nostro, l’Ave Maria e il Gloria, mi sono commosso a pensare quanto la sua esperienza di Pastore sia stata un tutt’uno con la fede del popolo: la devozione sincera della gente comune che resiste alla secolarizzazione. A volte si ritiene che questa non sia abbastanza profonda. Al contrario, la preghiera fatta con il popolo, che ha certamente nella liturgia il suo vertice, è il modello da seguire».
Giorni fa il Presidente Napolitano scherzava con il vicepresidente americano Biden: in Vaticano i cardinali «sono stati più veloci dei politici italiani». A parte le ovvie differenze, c’è qualcosa che la politica non solo italiana potrebbe prendere a esempio nella capacità della Chiesa di «ripartire»?
«Penso che la politica possa imparare dal Conclave una priorità: quella di soffermarsi sull’analisi dei problemi da affrontare prima che bloccarsi sul semplice "a chi tocca". Il rischio dei personalismi è quello di far indietreggiare la soluzione dei problemi reali, a vantaggio di considerazioni che poco hanno a che vedere con il bene comune. Il fatto che un collegio certo più ridotto nel numero, ma proveniente da tutto il mondo, abbia raggiunto in tempi brevi un consenso su una persona dice che alla fine a prevalere non sono state logiche personali, ma una passione comune per il bene della Chiesa. Nella Sistina lo sguardo di Cristo ha avvolto e guidato il collegio cardinalizio a indicare colui che Egli aveva scelto».
C’è continuità tra Benedetto XVI e Francesco, e in che cosa?
«Vederli inginocchiati l’uno accanto all’altro nella cappella di Castel Gandolfo ha cancellato di colpo le differenze che pure sono evidenti per temperamento, provenienza e storia. Le rapide immagini dell’incontro di ieri ci ricordano la chiave di lettura per comprendere la vera continuità: l’essere entrambi discepoli appassionati dell’unico grande Pastore, Cristo».
Ha senso, dopo la «rinuncia» di Ratzinger, parlare di un papato «a tempo»?
«La possibilità della rinuncia è prevista dallo stesso Codice di Diritto canonico, ma resta sempre una scelta che è legata — come ha confidato lo stesso Benedetto XVI — a una decisione personale maturata dinanzi a Dio. Nessun altro, dunque, può interferire».
Gian Guido Vecchi