Luigi Accattoli, Corriere della Sera 23/03/2013, 23 marzo 2013
IL POLIGLOTTA CHE USA L’ITALIANO. LA SCELTA PER COMUNICARE MEGLIO - È
poliglotta ma non parla le lingue. Ieri papa Bergoglio ha ricevuto il corpo diplomatico e ha parlato in italiano, mentre è un antico blasone della diplomazia vaticana l’uso del francese, sempre rispettato dai Papi. Nell’ultimo Angelus — il 24 febbraio — Benedetto aveva salutato in cinque lingue, all’ultima udienza generale — il 27 marzo — ne aveva usate 12. Il 25 dicembre aveva detto «Buon Natale» in 56 lingue.
Papa Francesco finora ha parlato solo in italiano e non ha mai salutato nella loro lingua neanche gli argentini che erano venuti per l’inizio del Pontificato. Del resto aveva suggerito ai connazionali di non venire a Roma e di donare ai poveri il prezzo della trasferta. Ecco il punto: riduce le lingue come le vesti e gli ornamenti, e come forse vorrebbe ridurre le spese e il fasto.
La rinuncia alle lingue è una tessera del ridimensionamento degli aspetti scenici e rituali della figura papale per recuperare in essa l’immagine di «vescovo di Roma». Oltre all’italiano e allo spagnolo, Bergoglio parla il tedesco, il francese, l’inglese: dicono in Vaticano che l’attuale stretta astinenza dalle lingue non sarà «per sempre»: le userà — possiamo interpretare — quando ne avrà bisogno, ma non per sistema.
Con questa fuoriuscita — per ora solo simbolica — dallo schema formale dell’esercizio «ricevuto» del ministero petrino egli persegue più obiettivi: si libera dalla tutela della Curia, predispone l’opinione pubblica all’accoglienza di una figura papale in relazione con il suo «popolo», l’avvicina alle attese delle altre Chiese.
Se a poche ore dalla fumata bianca il nuovo Papa legge ai cardinali un’allocuzione in latino preparata dagli uffici, è chiaro il segnale di spoliazione delle caratteristiche personali e di rivestimento istituzionale implicito in quel modo di presentarsi al mondo. Ecco invece Papa Francesco che accantona quel testo e parla come gli detta il cuore: forse proclama di meno ma comunica di più, perché resta se stesso, una persona che si mette in gioco nelle parole che pronuncia e nelle relazioni che stabilisce. Ecco perché ognuno si sente autorizzato ad abbracciare il Papa argentino.
Già molti alleggerimenti della figura papale erano stati tentati dai predecessori, tra i quali ci fu chi andò a sciare sui monti e chi pubblicò libri su Gesù dicendo: «Ognuno è libero di contraddirmi». Ma si direbbe che papa Francesco voglia arrivare più lontano, come ad accentuare la dimensione personale e carismatica del ministero papale diminuendone la componente istituzionale e di governo.
Forse vuole che anche nella gestualità quotidiana il Papa non appaia più Capo della Chiesa e Capo di Stato (immagino che non ascolteremo mai questi titoli papali sulla sua bocca), ma cristiano tra i cristiani e vescovo tra i vescovi, chiamato a guidare la Chiesa di Roma che «presiede nella carità» all’intera famiglia cristiana. Nel saluto dalla Loggia dopo l’elezione questo concetto ebbe a dirlo con parole impegnative che sono restate fino a oggi quelle dotate di maggiore portata programmatica e che sono piaciute agli interlocutori ecumenici: «E adesso incominciamo questo cammino: vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese».
La liberazione della figura papale dall’armatura istituzionale, che Papa Francesco viene attuando sotto gli occhi attoniti dei cultori del sistema ecclesiastico tardo tridentino, è probabilmente destinata ad avere rilevanza ecumenica. Giovanni Paolo II invitò l’ecumene cristiana a interrogarsi su nuove modalità di esercizio del «primato» romano che potessero essere accettate da tutti: ed ecco che papa Francesco libera dal vecchio e rende pronta al nuovo la figura papale.
Luigi Accattoli