Mark Franchetti, La Stampa 23/3/2013, 23 marzo 2013
IO, CON I MARINES A NASSIRIYA SOTTO IL FUOCO DEGLI IRACHENI"
Esattamente dieci anni fa, la mattina del 23 marzo 2003, poco prima di colazione, ero dentro un Aav dei marines Usa, un anfibio d’assalto da 23 tonnellate, appena fuori da Nassiriya, nell’Iraq meridionale. Era il terzo giorno della guerra ed ero «embedded» con un battaglione Task Force Tarawa, una brigata di 7000 marines americani. In tutto ho trascorso con una delle compagnie della brigata tre settimane, 24 ore al giorno, raggiungendoli nel deserto del Kuwait e seguendoli nell’invasione dell’Iraq.
Il piano per quel giorno era stato studiato meticolosamente nelle lunghe sere passate ad esaminare mappe e immagini satellitari, prima dell’invasione. Sembrava tutto chiaro, e tutto sommato semplice. I marines sarebbero partiti dalla frontiera con il Kuwait, attraversando rapidamente, senza incontrare alcun ostacolo, i 200 km di deserto per arrivare alla periferia di Nassiriya da Sud-Est e assumere il controllo di tre ponti. L’obiettivo era creare un corridoio attraverso il quale la coalizione avrebbe potuto muovere migliaia di truppe e unità di supporto logistico sull’autostrada numero 7 che portava verso Baghdad, 360 km a Nord, per la grande battaglia per la capitale. I marines non intendevano entrare a Nassiriya, meno che mai tentare di prenderla.
C’era un unico problema: «Lo stradone delle imboscate», un viale che collegava i primi due ponti. Secondo l’intelligence, però, non ci sarebbero stati, o quasi, combattimenti, in quanto la parte orientale della città si diceva essere in maggioranza «pro-americana». Io ero con la compagnia Alpha. Alcuni marines sembravano delusi di vedersi assegnare una missione che appariva secondaria rispetto alle altre.
Quel giorno però fu per i marines americani il peggiore in termini di perdite in tutta la Guerra irachena. La battaglia sarebbe durata ore, coinvolgendo centinaia di marines, carri armati ed elicotteri da guerra. Morirono 18 giovani soldati americani. Altri 11 soldati di un battaglione di supporto vennero uccisi in città quella stessa mattina, portando il bilancio complessivo delle vittime a 29. Sessanta americani rimasero feriti.
Svoltasi soltanto tre giorni dopo l’inizio della guerra, la battaglia di Nassiriya è stata un brusco risveglio per gli americani, il primo segnale brutale che la strada sarebbe stata molto più lunga e insanguinata di quanto ci si aspettava. La maggior parte dei marines con i quali avevo trascorso tre settimane, soprattutto i più giovani, avevano l’idea ingenua che la maggioranza degli iracheni li avrebbero accolti a braccia aperte con mazzi di fiori. Avevano creduto alla forte propaganda di Washington che raccontava gli iracheni come un popolo che non vedeva l’ora di venire liberato dal suo crudele dittatore. Inoltre vedevano un nesso tra gli attacchi dell’11 settembre e il regime di Saddam Hussein. Teoria quest’ultima, promossa dall’amministrazione Bush, che si rivelò in seguito completamente falsa.
Ma mentre ci stavamo preparando a entrare nella periferia di Nassiriya - circa 400 marines in una colonna di più di 20 Aav, diversi carri armati e dieci Hummer con missili anti-carro montati sul tetto - i giovani soldati americani pensavano di essere in doppia missione di liberazione e vendetta. Ci stavamo ormai avviando verso l’entrata in città dall’Est e non c’era sentore di quello che ci attendeva. Pochi locali vestiti di stracci osservavano l’incredibile spettacolo della macchina da guerra americana in movimento. Nessuno ci salutò. La battaglia fu senza pietà. Eravamo rimasti incastrati per più di tre ore mentre gli iracheni barricati nelle case, in un ospedale e dietro gli angoli, ci riversavano addosso munizioni, in un anticipo di quello che gli americani avrebbero sperimentato per i dieci anni successivi. Nonostante l’arsenale dei marines fosse soverchiante, colpire gli iracheni non era facile. Non indossavano uniformi, avevano pianificato bene l’imboscata, immagazzinando armi in decine di case tra le quali si spostavano tranquillamente spacciandosi per civili. «È una brutta situazione», disse il sergente James Thompson, dopo un giro nei dintorni con la sua pistola 9mm in mano. «Non sappiamo chi ci sta sparando. Usano perfino le donne per le ricognizioni. Queste arrivano facendoci segni, o alzando le mani. Noi ci fermiamo e l’attimo dopo vediamo che la donna indica la nostra posizione ai combattenti nascosti dietro l’angolo. È veramente difficile distinguere combattenti e civili».
Per l’ora di pranzo, quando ci siamo precipitati lungo lo «stradone delle imboscate» per prendere posizione nel Nord della città, la scena era quella di un massacro. Ho visto un iracheno sparare un razzo dentro un Aav, attraverso la botola aperta. L’esplosione fu terrificante, amplificata 10 volte dalle munizioni dentro il mezzo. I pezzi volarono in mezzo alla strada. La pesante rampa posteriore era stata squarciata. C’erano pozze di sangue e pezzi di carne umana dovunque. Una gamba staccata, ancora con il «desert boot» sul piede, giaceva a sinistra della rampa, in mezzo a carte da gioco, riviste, lattine di Coca-Cola e un piccolo orsetto di peluche insanguinato. «Sono f*****mente morti, morti. O mio Dio! Venite qui! Venite qui e tirateli fuori», urlava un marine, sull’orlo di un attacco isterico.
L’asfalto della strada verso il Nord della città era cosparso di pezzi di corpi umani. La maggior parte dei giovani marines non aveva mai visto un cadavere, meno che mai ucciso qualcuno. Fu un battesimo di fuoco che li avrebbe cambiati per sempre. I loro volti non erano più gli stessi. Rabbia e paura venivano alimentati dalle voci che i corpi di soldati americani venivano trascinati per le strade di Nassiriya. Qualcuno piangeva tra le braccia degli amici, altri cercavano consolazione nella Bibbia.
Il mattino dopo, gli uomini della compagnia Alpha avevano discusso della battaglia. Ora erano visibilmente agitati e reagivano nervosamente a qualunque movimento intorno al perimetro. Sospettavano che le automobili dei civili, inclusi i taxi, portassero rifornimenti al nemico in città. Appena un’auto veniva avvistata lungo una delle due strade, scattavano appelli via radio con la richiesta nevrotica di permessi per «ammazzare i veicoli». 24 ore prima un permesso del genere quasi sicuramente sarebbe stato negato. Ora veniva concesso.
Quel giorno, ho assistito alla morte di almeno 12 civili iracheni, inclusi donne e bambini, finiti sotto una pioggia di fuoco mentre cercavano di scappare dalla città in auto, attraversando il ponte che portava verso le nostre posizioni. Disarmati, andavano dritto contro i marines, giovani ancora sotto lo shock della battaglia sanguinosa di poche ore prima, che eseguivano l’ordine di sparare a tutto quello che si muoveva. All’improvviso, alcuni di questi giovani mi ricordavano la generazione dei loro padri, i soldati dal grilletto facile del Vietnam. Coperti di fango secco, esausti e pericolosamente aggressivi. «Gli iracheni sono il cancro, noi la chemioterapia», disse un giovane marine.
Per la prima volta avevano assistito alla brutalità della guerra, avevano ucciso e visto cadere i loro amici. Le speranze ingenue che sarebbero stati accolti da folle di iracheni in giubilo, che sarebbe stata una guerra rapida e facile, se ne erano andate. Avevo lasciato i marines e raggiunto Baghdad il 14 aprile, 5 giorni dopo il famoso episodio della statua di Saddam tirata già dal piedistallo. Ufficialmente la città era in mano agli americani e il dittatore iracheno era fuggito. C’erano però ancora sporadici combattimenti, e dovunque si assisteva ai saccheggi. I numerosi lussuosi palazzi del dittatore, ma anche case private, negozi, musei e ministeri erano zeppi di saccheggiatori. All’orizzonte si levava il fumo. Non c’era un clima di vero trionfo, semmai una strana sensazione di inquietudine. Molti iracheni stavano festeggiando, assalendo i ritratti di Saddam, lanciando scarpe contro la faccia del dittatore, il peggior insulto possibile. Ma già cinque giorni dopo il crollo del regime ogni volta che parlavo con il popolino iracheno degli americani sentivo dire la stessa cosa: «Grazie per averci liberato di Saddam, ma ora filatevene a casa».
In pochi capirono quanto le cose si stessero mettendo male, man mano che l’Iraq stava precipitando in un decennio di caos e violenza. Ma i primi segni erano già ovunque. Quando, due settimane più tardi, l’1 maggio 2003, Bush annunciò orgogliosamente al mondo dal ponte della portaerei Abraham Lincoln che «la missione era compiuta», nel profondo dei loro cuori sia i marines che gli iracheni con cui avevo parlato lo sapevano: era solo l’inizio. Il peggio doveva ancora venire.