Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 24 Domenica calendario

PARLA IL REGISTA CHE HA APPENA COMPIUTO OTTANT’ANNI LUCA RONCONI “VORREI DARE UN SENSO ALLA TRISTEZZA MA HO VISTO TROPPI FILM PER CREDERCI”

Nonmi viene in mente niente di più tenero e vulnerabile delle parole di Luca Ronconi. Mentre lo guardo, incorniciato da una leggera barba, penso che vivere una vita non sia come accendersi una sigaretta, bere un whisky o fare una passeggiata. Anche una vita passabile, o fortunata, è fatta di frenate improvvise davanti al precipizio; di frammenti arenati e sparsi sulla spiaggia degli anni. E Ronconi di anni ne ha compiuti ottanta. Lo hanno celebrato e messo sul podio, lui se ne è ritratto. Lo hanno illuminato con esultanza, ma la luce comincia a pesare. Ci vediamo al Piccolo di Milano di cui ha la direzione artistica. Lo trovo dimagrito. Ricordo un nostro lontano incontro nella sua casa vicino Gubbio: disponibilità amabile, chiarezza mentale, sorriso dolce. La sua voce stantuffa, a volte sale, a volte si ritrae, è come se inseguisse le parole o le abbandonasse ai pensieri più nascosti.
Per i suoi ottant’anni l’hanno molto festeggiata. Come si sente ora che tutto si è concluso?
«Mi hanno riempito di onorificenze e non sapevo se essere più grato o smarrito. Della serie “che ci faccio io qui”. Poi la macchina della festa va avanti. E alla fine ti accorgi che vuoi bene ad alcune persone e di altre non te ne frega niente. E se sei in vena di tristezza fai la conta di quelli che non ci sono più».
Cosa le suscita constatare che alcuni amici sono spariti?
«Può sembrare antipatico o freddo quello che le sto dicendo, ma penso che una persona che sparisce, semplicemente non c’è più. Perfino quando è morta mia madre — la persona alla quale sono stato più legato in vita — ho avuto una reazione analoga. Sono stato malissimo prima, ma dopo è giunta la serena accettazione».
Un vuoto senza conseguenze?
«Con la persona che non c’è più se ne va anche il pieno che faceva. Il vuoto entra a far parte della tua vita. Non credo sia possibile riempirlo. Solo in minima parte l’elaborazione simbolica, i ricordi, le tracce surrogano, sostituiscono, riempiono. Quel vuoto ci deve stare, fa parte del come devono essere le cose».
Cos’è il vuoto nel teatro?
«Sarebbe meglio chiedersi che cosa sia il non-vuoto. Lo definirei l’aspetto ingannevole della rappresentazione teatrale. Molte cose che accadono in teatro sono riempitivi del vuoto. Non c’è da fidarsi delle battute che gli attori pronunciano, per la semplice ragione che essi abitano sempre un altro luogo — un altro vuoto — rispetto alla realtà. Se uno spettacolo ti piace veramente non vedi più lo spettacolo, ma una parte di te che riempie degli intervalli, ossia dei vuoti».
Si spieghi.
«Il teatro, diversamente dal cinema, è fondato sulla distrazione. È più interessante cercare di prevedere la distrazione del pubblico che pretenderne l’attenzione costante. Invece, al cinema la distrazione renderebbe inutile un film».
Sta dicendo che il pubblico cinematografico è diverso da quello teatrale.
«Non riesco a pensare al pubblico teatrale come a una comunità. Esso ha un’attenzione intermittente ed è bene che sia così. Una tensione che divaga. Mentre al cinema il pubblico si concentra, è tutt’uno con le immagini. Se non credi a ciò che sta accadendo sullo schermo il film non tiene. Il teatro distingue, il cinema omologa».
Ha mai fatto o pensato di fare cinema?
«È un mezzo che non mi corrisponde. Straordinario frutto del secolo scorso, ma per me inadatto. Tutta la mia vita è stata nel teatro».
Ha cominciato come attore?
«Una professione svolta per una decina di anni».
E prima?
«Prima quando?»
Prima di essere attore?
«Diciamo che la mia vita non è partita con il piede giusto. Non sono stato un bravo studente e in gioventù fui anche abbastanza depresso».
Ne capiva le ragioni?
«C’è sempre qualcosa di sbagliato nel descrivere la propria tristezza, si rischia di fraintendere le proprie ombre. E poi, abbiamo visto troppo cinema per pensare che certe spiegazioni siano vere. Prima ancora che convincenti ».
Eppure si prova a darle.
«Ovviamente. Potrei dirle della mancanza di un padre. Di un padre che
viveva altrove, fuori dall’orizzonte affettivo rappresentato da mia madre. Potrei aggiungere che la mutria che avevo da ragazzo, quell’atteggiamento arcigno e dimostrativo di non farcela, probabilmente era una reazione provocatoria. Ma al dunque non ce la facevo davvero. Ricordo che arrivavano pagelle zeppe di due e di tre».
«Come una cosa che mi riguardava. Oggettiva. Pensavo che quello fosse davvero il mio livello di rendimento. Ho spesso immaginato che sarei diventato una persona squallida e confesso che ancora oggi mi capita di avere la sensazione dello squallore. Una patina che mi è rimasta addosso».
«Apparentemente no. Ma c’è sempre stata in me una difficoltà nei rapporti personali e in particolare in quelli affettivi. Ho cercato di bilanciarla con la mia passione per il teatro, anche se da piccolo frequentare un teatro mi dava un’enorme ansia. Mi veniva una specie di orticaria».
«Dal fatto che era la sola esperienza che davvero mi interessasse. Non avevo amici, non giocavo con nessuno. Il solo intrattenimento era con un teatrino di marionette. Un giorno allestii la scena sul davanzale della finestra a beneficio dei passanti. La mamma fece una scenata pazzesca e mi diede due ceffoni».
«Insegnava lettere. A un certo punto mi mandò in un collegio in Svizzera. E lì, per la prima volta, avendo imparato in pochi mesi il francese e il tedesco, riuscii a stupirla. Scoprii allora di possedere una notevole capacità di apprendimento. In seguito mi iscrissi contemporaneamente all’Accademia d’Arte drammatica e all’Università. Feci un paio di esami a giurisprudenza per capire che non era per me. Divenni così un attore».
Il suo esordio?
«Con Luigi Squarzina in
Tre quarti di luna.
Facevo la parte di un seminarista che scopre di non avere vocazione».
È importante avercela?
«Fa un po’ ridere sentire che qualcuno ti chiama. Meglio dedicarsi a qualcosa: è meno presuntuoso».
Da attore come si percepiva?
«Mi sentivo infelice. A disagio. Sa quando uno non è più in sintonia con ciò che viene dal tempo che si vive?»
Credo di capire.
«Quando facevo l’attore mi veniva richiesto un modo di essere sul palcoscenico totalmente diverso da ciò che sentivo e che potevo fare. E non è che reagissi pensando: io vado bene e gli altri no. Mi sentivo semplicemente fuori posto».
E cosa ha fatto?
«Non volevo rimettere nulla in discussione di me, piuttosto mi sarei buttato via. Ero lì in attesa degli eventi. Tanto è vero che iniziai a fare il regista non per mia scelta. Me lo proposero. Dovevo mettermi alla prova. Ero spaventato. Perciò all’inizio ricorsi a un sostegno psicologico».
Intende dire che fece analisi?
«Sì, qualcosa che mi aiutasse a uscire dalla sofferenza».
La sofferenza conta nel teatro?
«Nel teatro è fondamentale il linguaggio».
Quello letterario? Glielo chiedo perché lei usa molto il romanzo.
«Non necessariamente. Puoi utilizzare anche il linguaggio di un giornale o magari di una lezione scientifica, come feci con
Infinities,
tratto da cinque storie di Barrow».
Cosa pensa del teatro italiano?
«Il nostro problema rispetto agli altri teatri è l’asfissia».
Cioè è troppo soffocante?
«Praticamente il teatro italiano è stato contrassegnato, e lo è tuttora, da una figura sconosciuta altrove: il capocomico».
Nobile tradizione.
«Ma sì, però è rimasta confinata a una dimensione familiare se non familistica ».
C’è anche la grandezza di alcuni interpreti come Eduardo De Filippo o Carmelo Bene.
«È vero. Ma la domanda è: chi ti dà la grandezza? Te la dai da solo o qualcuno te la conferisce?»
Bella domanda. Cosa risponde?
«Per me non c’è grandezza senza generosità».
Basta questo per definire un grande attore?
«Ma sa, è difficile rispondere. Gliela giro in questo modo: per me è molto difficile conservare la stessa tensione durante tutto lo spettacolo. Di una cosa, anche bella, alla quale assito alla fine mi restano una o due scene. Sono quelle che ricordo e mi svelano tutto. Allora, penso sia sbagliata la domanda cos’è un grande attore. Puoi anche avere un grande attore di vent’anni. Perché il grande attore non è un ruolo, è un momento ».
Un tempo teatrale?
«Un tempo altro, un’intermittenza che è la cosa che più mi coinvolge nel teatro».
Fuori dal teatro com’è la sua vita?
«Fu molto scriteriata. Con l’età si mette la testa a posto. E penso che tutto quello che faccio ora finisce in quel budello che è il teatro. Qualunque cosa io triti è lì che si va ad infilare, buona o cattiva che sia».
È un’immagine di grande pienezza. Ma la nostra conversazione era iniziata sul vuoto. Quanto scava l’età di una persona?
«Scava per forza. Però vedo gente della mia età che col passare degli anni o si complica o si semplifica la vita. O diventa più barocca o più leggera».
«Ho l’impressione di essere diventato più leggero. Proprio perché il tempo ha scavato. Per anni sono stato molto barocco, non nel senso di avere addobbato il mio lavoro con fronzoli e cornici dorate. Ma per aver cercato di mettervi più cose possibili. Ora mi accorgo che c’è un’inversione in corso ».
Anche il nostro Paese ha cominciato a scavare?
«Lì occorrerebbe togliere tantissimo. Spero solo che la nostra inclinazione alla furbizia lasci il passo alla responsabilità. Vedo in giro molta angoscia e paura».
Come si traduce tutto questo in teatro?
«Il mio teatro non è mai programmatico. Niente didascalie. Mi accadeva negli anni Sessanta e Settanta, quando andava di moda quello politico, di sostenere che il teatro era un’arma di discredito delle ideologie. Lo penso ancora oggi che ho compiuto ottant’anni».
Come pensa di vivere gli anni che ha davanti?
«Lavorando e curandomi. Come sa sono in dialisi e qualche problemino questa situazione lo ha creato».
La malattia l’ha cambiata?
«Non più di tanto. Ricordo perfettamente quando a un mio amico, che era con me in casa il giorno prima della diagnosi definitiva, ho detto: se domani mi annunciano che devo fare la dialisi mi butto dalla finestra. Poi, il giorno dopo, è giunto il responso sfavorevole e mi sono detto: questa cosa va affrontata e gestita».
È stato coraggioso.
«Ci sono momenti crudeli nella vita che quando arrivano e colpiscono non sai come reagire. Le parole scalciano ma non bastano, e il rigetto di quello che ti sta accadendo è forte. Ma poi alla fine non è così diverso da certi rudimentali schiaffi che si prendono da bambino. Ora, non dico che mi diverto. Faccio dialisi per tre o quattro ore e poi per un po’ resto intontito. Però, al Policlinico mi fa ridere l’infermiera che mi dice: maestro, ma che fa le prove? E allora penso che la vita può essere vissuta come il prolungamento del teatro».