Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 24/3/2013, 24 marzo 2013
IO PARLO DA SOLO
Parlare da soli non è proprio mai stato un gran bel sintomo. Eppure oggi appare come una vera e propria vocazione, e vociferazione, nazionale, almeno a giudicare dagli immancabili «Io non ti ho interrotto prima, ora non interrompere me» che costituiscono l’essenza degli ormai frustri talk-show televisivi, detti anche dibattiti. Dalla spensierata “stand up comedy” al solenne discorso di fine anno del presidente della Repubblica passò già un abisso: ma ora che Beppe Grillo (che eccelse nella prima e parodiò il secondo) ha salito il Colle per incontrare Giorgio Napolitano la distanza e il dislivello si sono notevolmente ridotti.
Il monologo. Se non lo usasse soprattutto per esprimere dubbi, Amleto sarebbe il nostro nume protettore. Così preferiamo Girolamo Savonarola: la predica, il messaggio, il monito ma anche lo sfogo di autocompianto, l’argomentazione indignata, la replica ad argomentazioni immaginarie, l’occupazione dello spazio acustico, fiera di sforare e incurante di quella risorsa della civiltà che consiste nel rispetto dei turni di parola. Ci sono anche monologhi che esortano al dialogo: altrui. Il malnato bipolarismo all’italiana ha ricevuto l’imprinting dal video di Arcore del 1994. Da allora l’interlocutore è considerato solo un avversario
dialettico, ovvero un facitore di monologhi opposti. L’intervista che approfondisce, insinua dubbi, contrappunta il monologo nei tempi e nei temi è percepita come “inginocchiata”.
Qualche tempo fa, il maestro Nicola Piovani in privato rivolgeva una domanda: «Ma come è che c’è sempre più gente che va in tv a leggere?». Si riferiva alle liste e alle letture di brevi testi degli ospiti di Fabio Fazio, ma anche agli interventi filati del quadernetto di Marco Travaglio, alla divisione del mondo in “rock” e “lento” declamata da Adriano Celentano, fino a declamazioni attoriali di livello vario. È un nuovo ruolo giocato anche in tv dalla parola scritta (di cui la civiltà dell’immagine ha un bisogno spesso sottovalutato), ma è anche la nuova impazienza verso il “gobbo” e gli altri artifici che vogliono mascherare lo scritto da orale puro e “naturale”. Colpisce però che sia un altro uomo di cinema a sottolineare la vocazione monologica della società, o forse dell’antropologia, italiana. Critico e preside della facoltà di comunicazione dello Iulm di Milano, Gianni Canova dedica all’argomento l’editoriale del prossimo numero di “8 1/2”, (il mensile da lui diretto e edito da Cinecittà/Istituto Luce). Viviamo in una cultura monologica, che non tiene conto che del proprio punto di vista, nella
di suscitare adesione fideistica ed emozionale. È per questo, secondo Canova, che un’arte polifonica come il cinema in Italia occupa una posizione minoritaria nella forma, prima ancora che nei temi.
Oltre che dal testo scritto, oggi il monologo è spesso soccorso anche da proiezioni di immagini e “schermate”, secondo i dettami retorici diPower-Point, in termini di
inventio, dispositio, elocutio.
Se ne giova Matteo Renzi, a partire dai suoi interventi alla Leopolda, ma anche
Gazebo(
RaiTre) una novità della stagione televisiva: Diego Bianchi commenta davanti a un pubblico divertito i video che ha girato in settimana nei luoghi degli eventi topici della settimana. Una trovata che richiama però (e il caso è molto curioso) lontane trasmissioni del giovane Grillo,
Te la do io l’America
e
Te lo do io il
Brasile.
Lo snodo a modo suo storico si è avuto quando il monologo teatrale (genere la cui diffusione epidemica incomincia a far-
si inquietante) ha incrociato i diversi linguaggi della comicità e dell’orazione civile, entrando in tv e proponendosi come una forma artistica e nobile di infotainment. Tenendo per certa una genealogia che ha alle radici il lavoro di Dario Fo e quello di Giorgio Gaber, e ancor prima il drammatico caso di Lenny Bruce, un piccolo big bang si ebbe nel 1997 quando la primissima RaiDue di Carlo Freccero trasmise in diretta il “Racconto del Vajont”, monologo di Marco Paolini, nell’anniversario della catastrofe. Paolini era allora quasi sconosciuto: dopo quella sera non lo fu più.
Negli stessi anni si stava anche aprendo la proficua stagione degli eventi culturali. Lo scrittore Daniele Del Giudice si inventò a Venezia il ciclo “Fondamenta” per cui riprese dalla tradizione accademica la forma della “Lectio Magistralis”, per ospiti come IanMcEwan o José Saramago. Aiutato anche dall’aura elitaria del suo nome latino, il format fu poi universalmente declinato anche ad altezze ben più modeste. Vezzo forse perdonabile: sottolisperanza
nea, magari con troppa enfasi, quella solennità che davvero si addice all’occasione in cui qualcuno, essendo qualificato per farlo, prende la parola davanti a un uditorio attento.
Ben pochi dubbi si possono avere sulla funzione depurativa che i nuovi format monologici hanno svolto rispetto alle stucchevoli logomachie di dibattiti- pollaio, tavole rotonde olistiche e confronti a somma zero. Ma detto che proprio l’attenzione e la concentrazione di ascolto che richiama, la preparazione altrettanto attenta che consente e però l’immediatezza di resa che propizia costituiscono i vantaggi del monologo quando è al suo meglio, non se ne possono nascondere i limiti intrinseci. Perpetua quella riluttanza al dialogo denunciata da Canova; esalta il narcisismo più pernicioso dei suoi virtuosi; li invita a un solipsismo che può rasentare la verbigerazione psicotica. Tutto ciò rende la struttura del monologo molto fragile, esposta a qualsiasi irruzione dell’Altro. Lo si è visto
nell’increscioso incidente sanremese che è occorso a Maurizio Crozza, che da comico pur
consumato qual è, si è visibilmente paralizzato di fronte a interruzioni e proteste che in
passato hanno consegnato alla leggenda le capacità di reazione di leoni dell’avanspettacolo Ettore Petrolini e Alberto Sordi. Ma lo si è visto anche nella fatale puntata berlusconiana di
Servizio Pubblico
dove Marco Travaglio è apparso spiazzato dalla ritorsione – poco sostanziosa nei contenuti, ma efficacissima per lo spettacolo – che l’obiettivo polemico di tanti suoi editoriali declamati ha operato lì per lì.
Il monologo non presuppone l’ascolto, ma spesso ne fa sa fare a meno anche il contraddittorio all’italiana. Per arrivare al dialogo occorrerebbe rottamare il modello egemone di comunicazione, l’agonismo fondato sul bombardamento verbale e la prevalenza quantitativa. Non poche delle crisi italiane non conoscono altra soluzione che quella che prevede di aprire le orecchie, magari prima della bocca. Purtroppo se fare ascolto, in tv o altrove, non è da tutti, saperlo dare risulta ancora più raro.