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 2013  marzo 24 Domenica calendario

BELLI E SPIETATI I COSACCHI SONO TORNATI

MOSCA Per la Fede, per la Patria e per lo Zar. Tutto rigorosamente in quest’ordine. L’antico motto dei cosacchi dice più di ogni altra cosa su queste figure leggendarie uscite improvvisamente dai libri di storia e dal folklore delle guide turistiche per attraversare con passo fiero e sguardo cattivo le strade delle città russe. I colbacchi, le fruste, le cartuccere dorate intarsiate sui lunghi cappotti rossi, vengono dopo. Giusto per dare un tocco di solennità e di mistero a un revival studiato a tavolino con l’ambizioso scopo di «riportare legge e ordine nel Paese».
E fa uno strano effetto, a metà tra il minaccioso e il patetico, vederli aggirarsi nelle ore notturne, come ronde di quartiere in uniforme storica, pronti a dare una lezione a qualche ubriaco un po’ troppo sguaiato o a segnalare rabbiosamente alla polizia eventuali «comportamenti immorali » sui marciapiedi di periferia.
Ma sono solo distorsioni metropolitane. Come vedere un cowboy a Manhattan o un samurai tra i grattacieli di Tokyo. In altri scenari più consoni al mito, lungo le valli meridionali del Volga o sulle sponde del sempre placido Don, i cosacchi sono invece tornati davvero. Marziali e spavaldi nelle loro nuove accademie, centri di addestramento, scuole religioso-militari protette,
benedette, e gestite dal Patriarca ortodosso in persona. Qui le divise colorate, i pantaloni blu dalle bande rosse che un tempo indicavano l’esenzione dalle tasse, le cariche a cavallo lungo le steppe sconfinate, evocano senza equivoci le gesta di Taras Bulba e degli altri eroi cantati dal fior fiore della grande letteratura russa. Una rivincita, dopo anni di depressione e oblio, per un popolo guerriero e ribelle che ancora ripete di riconoscere solo due autorità: “Il cavallo sotto di noi e il Signore sopra di noi”.
Non è proprio una garanzia di fedeltà assoluta allo Stato come constatarono nei secoli molti zar, preoccupati dalla turbolenta e intermittente obbedienza dei loro migliori cavalieri. Ma per Vladimir Putin, ansioso di “bonificare” le difficili aree del Caucaso islamico e separatista, va benissimo così. Laggiù, dove la pressione dell’Islam e il boom demografico delle popolazioni ostili al potere di Mosca minacciano l’integrità dell’Impero, una difesa organizzata e anche un po’ ottusa della Cristianità, come quella offerta dai valorosi cosacchi, serve perfettamente allo scopo.
Putin ci conta. Finora li aveva usati solo nella guerra vera, durante l’invasione del territorio georgiano nel 2009, inviando battaglioni cosacchi in Ossetia e Abkhazia del Sud. Adesso gli servono a incutere timore agli integralisti islamici di Cecenia, Daghestan e Kabardino Balkaria e, magari, anche ai giovani piccolo borghesi delle grandi città che da qualche tempo hanno preso
l’abitudine di inscenare grandi manifestazioni di piazza contro il potere.
Loro lo fanno con lo stesso impegno con cui gli antenati proteggevano i confini meridionali del territorio degli zar dalle orde tartare. Con devozione totale alla Madonna del Don loro protettrice e con una lista di nemici che mette i brividi: musulmani, ebrei, atei e sobillatori dell’ordine costituito.
Ed è con questo spirito e con questi motti che si formano i giovanissimi allievi delle nuove scuole di cadetti, o delle palestre cristiane che sorgono a ritmi impressionanti da Volgograd (già Stalingrado) alle città sul fiume Terek. Dove, come promette ai genitori uno slogan molto diffuso, “si forgiano i cosacchi del XXI secolo”. Che cercheranno di somigliare il più possibile ai loro progenitori comparsi intorno al Milleduecento, bellicosi e invincibili, nella steppa dell’Europa dell’Est tra Ucraina e Russia del Sud. E che i loro nemici tartari definivano
kazakche
vuol dire “libero avventuriero”. Cavallerizzi di abilità tuttora ineguagliata, spirito libero e lunghe sciabole usate su chiunque senza alcuna pietà. Prima alleati dei prìncipi locali, poi insubordinati servitori degli z ar, divennero celebri per il loro democratico sistema interno di potere e per le loro feroci rivolte contro ogni prevaricazione. Combattenti impulsivi e disordinati, durante la campagna napoleonica di Russia fecero impazzire gli schemi di un teorico della guerra come il generale von Clausewitz che militava sotto le inse-
gne del Cremlino. Troppo prussiano per capire il selvaggio spirito russo dei cosacchi, von Clausewitz li bollò come dilettanti anarchici pur dovendo ammettere che solo loro, con le loro incursioni temerarie al limite della follia, erano riusciti a fiaccare la potenza delle armate francesi.
Irascibili e imprevedibili. La leggenda vuole che la presa del Palazzo d’Inverno, che nel 1917 segnò la conquista del potere dei bolscevichi, fu facilitata da una loro impuntatura. Si rifiutarono sdegnati di cooperare con un corpo volontario femminile alla protezione della residenza degli zar, lasciandola praticamente indifesa. In ogni caso, poco dopo ritornarono dalla parte dell’imperatore schierandosi con la Guardia Bianca nella guerra civile che seguì all’avvento del comunismo. A potere stabilizzato la reazione dei nuovi padroni del Cremlino fu spietata: i cosacchi furono deportati, sterminati, e in gran parte costretti a fuggire all’estero in quella che Stalin battezzò come una “campagna di
decosacchizzazionedel
Paese”. E siccome la fede cristiana viene prima di ogni cosa, migliaia di guerrieri cosacchi si arruolarono nelle fila naziste nel 1941 partecipando all’invasione dell’Urss con il proposito di “restituirla a Dio”. Cavalcarono in senso contrario le proprie steppe ostentando, durante il giorno, una svastica sulla divisa e, al tramonto, le icone sacre nascoste nei loro zaini da combattimento. Il disastro e l’ulteriore massacro di uomini donne e bambini che ne seguì sembravano aver messo fine a
un mito durato più di nove secoli.
Costretti in vere e proprie riserve indiane nelle province più urbanizzate del Caucaso, i superstiti dei cosacchi sono stati per anni un richiamo per turisti cui mostravano la loro abilità, nelle celebri danze o nell’ammaestramento dei cavalli, in malinconici spettacoli organizzati dalle agenzie di viaggio statali.
Non essendo una etnia vera e propria, ma solo la condivisione di un modo di essere, si sono mimetizzati con il resto della popolazione cominciando
lentamente a perdere abitudini e riti
di un tempo.
A rivitalizzarli ci ha pensato il primo presidente del periodo post sovietico Boris Eltsin con un decreto che li riabilitava e li considerava “vittime della repressione sovietica”. Ma chi ha deciso di riportarli agli antichi fasti è stato Vladimir Putin, vedendo in loro reincarnazione di antichi valori che dovrebbero aiutarlo a difendersi da separatismi e contestazioni. Un lavoro metodico, cominciato con il reintegro nell’esercito, il finanziamento di istituzioni locali, l’intervento spirituale ed economico della Chiesa e l’autorizzazione all’esercizio delle ronde urbane. E i cosacchi sono dunque tornati. Belli, scenografici e sicuri della loro forza. Inquietanti per molti. A seconda di come si vuole leggere l’ambigua definizione del grande scrittore Isaak Babel, fucilato per ordine di Stalin: «Delle bestie con dei
princìpi».