Eugenio Occorsio, la Repubblica Affari e Finanza 25/3/2013, 25 marzo 2013
MALAGÒ, UN BOIARDO NELLA CASTA DELLO SPORT “COSÌ PORTERÒ LA TRASPARENZA NEL CONI”
Roma Feudale. La definizione del sistema di potere dello sport italiano non viene da qualche atleta deluso o allenatore lasciato a casa. E’ tratta testualmente dal programma con il quale Giovanni Malagò ha conquistato l’elezione a presidente del Coni il 19 febbraio scorso. Un aggettivo che Malagò ha confermato anche nelle sue dichiarazioni post-voto. Feudale per quanto riguarda la governance, essenzialmente affidata a pratiche di tipo patriarcale federazione per federazione senza controllo dal centro, ma soprattutto costoso e inefficiente. All’attività sportiva vera e propria, cioè alla gestione dei campi, alle scuole di sport per i ragazzi, all’organizzazione delle gare e anche alla preparazione olimpica degli atleti di vertice, non va più di un terzo delle risorse complessive del Coni: 150 milioni nel budget preventivo del 2013 (approvato dalla giunta Coni il 15 marzo) su 411 del fondo di dotazione complessivo previsto che arrivano a 429 con i contributi del Cio (6 milioni) e alcune sponsorizzazioni di pregio come Armani, Rcs-Gazzetta dello Sport, Banca Intesa, Ferrero, Fiat, Procter & Gamble. Questo fiume di denaro pubblico dove finisce? Si disperde in mille rivoli, dal personale sovrabbondante (la Federazione pentathlon moderno ha 16 dipendenti per un sport praticato da pochissime centinaia di atleti) ai contributi a un’infinità di iniziative e attività minori sulla cui efficacia ai fini della promozione sportiva c’è spesso da dubitare ( vedere grafici
in pagina). Due terzi dello stanziamento, insomma, serve per tenere in piedi la struttura. «Mi adopererò per reperire risorse legate a progetti speciali per le federazioni», dice Malagò. Ma prima occorre un’iniezione di trasparenza. «Il successo della formula degli Internazionali è un punto di riferimento ma non può essere un modello esportabile in tutti i settori. Esistono però altre forme di compartecipazione pubblico-privato che esploreremo presto». Malagò sa bene di camminare su un crinale molto stretto. Da sempre rappresenta egli stesso la commistione perversa fra sport e politica. La sua nomina è il frutto di un sottile lavorio bipartisan, da Gianni Letta a Walter Veltroni. Il suo circolo, il Canottieri Aniene, è il crocevia degli inciuci politici più smaccati, lui stesso è stato a lungo indagato (poi prosciolto) per le sue relazioni pericolose con alcuni dei più spregiudicati costruttori all’opera per i mondiali di nuoto. Non sarà facile insomma qualificarsi come l’uomo della trasparenza. Del resto, lo sport ha un Pil complessivo di 25 miliardi, quantificato dallo stesso Coni in un libro bianco dell’anno scorso: inevitabile che su un settore che vale il 2% della ricchezza nazionale si siano da sempre concentrati gli appetiti dei politici. Dei quali con fatica ci si sta liberando. Paolo Barelli, senatore del Pdl dal 2001, per otto anni fino al 2012 ha cumulato quest’incarico con la presidenza della Federnuoto (nel 2013 non è stato neanche rieletto al Parlamento). Luciano Rossi, ex deputato dello stesso Pdl nonché coordinatore regionale per l’Umbria (anch’egli è uscito con le ultime politiche), è da ben sei mandati quadriennali al vertice della Federazione del Tiro a volo, specialità di cui è stato campione europeo nel 1973. E’ riuscito nel 2012 a farsi rieleggere. E così via. Ogni politicodirigente ha poi rapporti con i suoi referenti locali per le iniziative sul territorio, in un dedalo fittissimo di relazioni in cui Malagò vuole vederci chiaro, anche se si vuole muovere con prudenza. «Il Coni - ci spiega - può supportare gli enti locali ma non può sostituirsi ad essi. Ci sono molti esempi di collaborazione tra Coni e Regioni, Province e Comuni. Il nostro know-how è riconosciuto da tutti ma non possiamo prevaricare le prerogative di chi è chiamato a gestire le amministrazioni locali. Ottimizzare le risorse è un obiettivo comune ma mi rendo conto che esistono anche specifici capitoli di spesa sui quali il Coni non può avere voce in capitolo ». L’operazione-pulizia dovrebbe partire da una semplificazione organizzativa. Non si sa neanche quanta gente lavori nell’universo sportivo. Il Coni in quanto tale, ente pubblico che fa capo al ministro dello Sport, ha zero dipendenti. Il Coni Servizi, struttura privata a capitale pubblico (tipo Ice o Sace), creata nel 2002 in una riorganizzazione voluta dal ministro Tremonti (fa capo al ministero dell’Economia) ufficialmente con la ratio di facilitare la vendita del patrimonio immobiliare, ha 650 dipendenti. Ad esso è destinato il 24% del budget del Coni per il 2013. Coordina le joint-venture con le rispettive federazioni per gli Internazionali di tennis (che nel 2012 hanno avuto un fatturato di 16 milioni e un margine operativo lordo di 4,5), il Golden Gala di atletica, il Sei nazioni di rugby. Poi gestisce i centri federali di allenamento (Schio, Acqua Acetosa a Roma, Formia e Tirrenia) e infine vende consulenze il più delle volte ancora alle federazioni, il che rende le operazioni null’altro che partite di giro e aumenta i passaggi di un modus operandi abbastanza farraginoso. Vende anche, ma è una quota relativa, consulenze alle squadre di calcio per i nuovi stadi (Juventus e Sampdoria per l’impianto in progetto al porto di Genova) e ai comuni per alcune migliorie ai relativi impianti, tra cui Siena e Barletta, la città del grandissimo Pietro Mennea. Infine c’è il mare magnum delle federazioni, che in tutto assorbono il 60% dei fondi del Coni (i 150 per l’attività sportiva più i soldi per il personale). Hanno riassorbito parte dell’organico uscito dal Coni, e danno lavoro a 1300 dipendenti. Almeno ufficialmente. Diverse interrogazioni parlamentari presentate nella precedente legislatura e rimaste senza risposta avanzano il sospetto che fra collaborazioni, rientro di quanti erano andati in aspettativa, nuove assunzioni per chiamata nominativa, il personale delle federazioni si sia nel frattempo gonfiato di un altro migliaio di unità. Un censimento preciso è una delle priorità dell’agenda Malagò. Intanto però al progetto di “alfabetizzazione motoria” faticosamente avviato dal 2009 con il ministero dell’Istruzione, non si è riusciti a destinare per l’anno scolastico in corso più di 7,5 milioni (ai quali si aggiungono i 2,5 del Miur e i 2 della presidenza del Consiglio) quando ne servirebbero 70 per renderlo davvero efficace in termini di miglioramento dell’attività sportiva nella scuola primaria. Peraltro anche sui 150 milioni per le attività sportive propriamente dette gravano dubbi, denunce per mala gestio, sospetti di clientele. E domande forti: perché il calcio, uno sport ricco per definizione, sul quale si concentrano sponsor e interessi che tutti gli altri invidiano, assorbe 62 milioni (ed erano 78 fino a due anni fa)? E la federazione del canottaggio, per dirne una, ha davvero bisogno di tre milioni? I casi anomali sono tanti. Lucio Felicita, capo indiscusso della Federazione pentathlon moderno dal 1996, si è beccato negli ultimi mesi due denunce. La prima è un esposto alla Procura per peculato presentato da Pierluigi Giancamilli, fondatore di un’associazione di appassionati esasperati dalla mala gestio, che spiega: «Nel bilancio della federazione risultano sistematicamente 600mila euro l’anno per manutenzione più 147mila per misteriose spese “di facchinaggio” quando l’unico centro federale di allenamento, a Montelibretti vicino Roma, è fatiscente. Intanto se ne sta progettando a Pesaro, città di Felicita, uno nuovo da 8 milioni». La seconda è una denuncia alla giustizia sportiva per brogli elettorali presentata da Camillo Franchi, sconfitto alle elezioni dell’11 novembre scorso. Vi si sostiene che le società con atleti maggiorenni, quelle che votano alle assemblee, sono 15, ma alle elezioni se ne sono presentate 67 con i rappresentanti arrivati su due pullman. Ne sarebbero state costituite in fretta a decine solo per essere subito dopo cancellate, non senza pasticci tipo gruppi creati dopo le gare o estinti in data antecedente alla costituzione. Hanno votato in blocco per Felicita. Tutto questo fa passare in secondo piano le iniziative positive del Coni. In joint-venture con la Luiss, ha per esempio lanciato un corso di management sportivo da 126 ore di formazione presso la gloriosa Scuola dello sport dell’Acqua Acetosa. «È destinato a chi opera nelle federazioni, nelle associazioni, negli enti di promozione», spiega Giovanni Esposito, coordinatore del corso. «L’obiettivo è instillare una cultura manageriale fatta di correttezza, pragmatismo e consapevolezza del valore sociale dello sport. È tutto collegato: la capacità di rendicontazione va di pari passo con la gestione etica delle attività». Gli sprechi del recente passato costituiscono una letteratura infinita. Per la “ideazione e progettazione del marchio Fidal Servizi” sono stati spesi 200mila euro nel 2010. Alfio Giomi, presidente da dicembre 2012, promette: «È il momento del rigore». La Coninet, creata per fornire servizi web, ha 6 dipendenti e ben 500mila euro di stanziamento annuo. La Sportcast, canale televisivo in house della Federtennis, ha ricevuto fra il 2008 e il 2010 contributi per 17 milioni. A Reggio Calabria esistono 12 società di pallamano. Sergio Cherubini, docente di management alla facoltà di Economia di Tor Vergata che tiene un master in gestione delle risorse nello sport, taglia corto: «Per rendere più difficile l’imbroglio, risparmiare fondi pubblici e avere migliori risultati sia a livello agonistico che come ampliamento della base, occorre che chiunque si occupi di gestire soldi per lo sport, dalle federazioni agli enti locali, risponda a tre “C”: correttezza, consapevolezza e competenza. Per ora non sembra preoccuparsene un sistema che spesso procede per cooptazione, per inciuci, per affiliazione politica. Altro che tre C».