Malcolm Pagani e Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 22/3/2013, 22 marzo 2013
“I SIMPATICI MI SONO SEMPRE PIÙ ANTIPATICI”
Sul ramo preferito da Francesco De Gregori, nel punto esatto in cui muore la città, una bottiglia basta ancora per un pomeriggio intero. Tra un manifesto e lo specchio, guardare nel suo cappello pieno di ricordi è un viaggio di sola andata. Dalla periferia del mondo all’Arizona dei nostri cuori. Pagine chiare. Pagine scure. Cani per strada. Baci, abbracci, sputi e solitudini. Minimalismo e Storia. Irene affacciate alla finestra e prati di aghi sotto il cielo. Radio che andavano a valvola e progressi troppo sicuri di sé. Regali che duravano una settimana e capitani di ventura irresponsabili, “andiamo avanti tranquillamente”, al comando di tutti i Titanic della nostra vita. Giorno di pioggia. Gente tranquilla in fila. C’è un concerto. Lo zingaro nato nel ’51 che legge la musica nel firmamento adesso vive all’Atlantico. Un capannone grigio. Un palco. E dietro le quinte, la stanza con bagno prenotata a suo nome. Il camerino si riempie di fumo. Fuori dalla porta tecnici, amici, musicisti e il fratello Luigi, autore de “Il bandito e il campione”, un apache di due metri: stivali da vecchio West, capelli da Jesse James, baffi da uomo a presidiare la ferrovia. L’ultima stazione di De Gregori, Sulla strada, è un diario di sopravvivenza con ingressi segreti e uscite mascherate. Fortuna e talento tra le dita, il Principe ha imparato a riconoscerle. “Dài, cominciamo. Che intervista volete fare? Cattiva? Buona?”
Perché cattiva? Ha fatto qualcosa di male?
Qualcosa, come tutti.
Fumare Gitanes fa parte del qualcosa?
Sono stato 25 anni senza fumare. Avevo smesso con le sigarette, poi anche coi sigari. Ho ripreso durante il tour con Lucio Dalla. Accendeva in continuazione Marlboro sostenendo di non aspirare. Era una gran bugiardo, Lucio. Fumava come tutti, con l’aggravante della compulsività.
Ma il fumo non rovina la voce. Della scuola contiana “aspiro e poi canto come solo in paradiso”, Dalla era il manifesto.
Non solo ce l’aveva, la voce. Ma, anche quando gli mancava, sapeva inventarne una di riserva.
Buttava il cuore tra le stelle. C’è un metodo per farlo in musica?
Se dovessi spiegare come si fa, non saprei. Ho scritto canzoni nei modi più diversi. Della “Donna cannone” composi prima la parte pianistica. Parapam, parapam, parapam... Stava lì, chiusa in un cassetto, pensavo non ne sarebbe mai uscita. Quasi la stessa cosa accadde con “Alice”. In origine la musica. Tre mesi dopo, le parole. L’alchimia tra testo e note è sottile, ma non c’è un metodo unico. Può capitare che la scintilla iniziale sia più letteraria che musicale. Mi viene in mente un titolo, un’assonanza, una cosa curiosa, poi mi metto al piano o alla chitarra e provo una melodia che stia bene con le parole. Se la trovo anche in una sola strofa, mezza canzone è fatta.
Quando ha capito di essere un cantante?
Quando intuii che avrei potuto mantenermi facendo una cosa che mi piaceva. Le case discografiche iniziavano a darmi retta. “Alice” andò relativamente bene, partecipò a Un disco per l’estate e arrivò ultima. Era l’epoca del dominio dei 45 giri sugli Lp e quando mi dissero “l’Lp ha venduto 4 mila copie”, sorrisero.
Era il De Gregori coi capelli lunghi, quello pre-Rimmel.
Il De Gregori coi capelli. Quello che da ragazzo aveva l’hobby della musica e sognava di suonare su un palco come si può desiderare di diventare calciatori. Mi piaceva molto il Morandi di “In ginocchio da te” di cui, mascherandomi da cantante, replicavo i pezzi in camera mia. Di lui mi rapivano esuberanza e bellezza. Mi facevo prestare i soldi dai miei e correvo a vedere i suoi film con Laura Efrikian.
Rita, insegnante di lettere e Giorgio, bibliotecario: i suoi genitori. Chi erano?
Persone di buon senso che mi lasciavano libero nelle scelte fondamentali. Cosa leggere, cosa vedere al cinema, che scuola fare. Non mi hanno mai contrastato, pur augurandosi per me un mestiere più normale. Iniziai a fare musica nel ‘68, col mondo giovanile in rivolta contro la famiglia. Temevano diventassi troppo antagonista ai valori che mi avevano insegnato. Non accadde.
Passioni di quegli anni?
Il godimento primigenio me lo diede Celentano. “Il ragazzo della via Gluck” è il primo pezzo che suonai. Poi De André. La scoperta del “Testamento” mi spalancò un mondo. Capii che le canzoni potevano servire anche a immergersi in ambiti profondi. Ruvidi, celesti e complicati. Che si potevan raccontare cose molto diverse da quelle di Morandi, senza offesa per Gianni. Avevo 13 anni. Fabrizio era fuori mercato. Non era tipo da promozioni. Lo pubblicava una casa discografica superindipendente, la Karim. Poi lo conobbi.
Collaboraste. “Oceano”, “La cattiva strada” e “Canzone per l’estate” sull’infelicità coniugale.
Non l’ho mai sentita davvero mia. Non che fosse un esercizio di stile, ma diversamente da un’altra sofferenza amorosa molto autobiografica, quella di “Dolce amore del Bahìa”, non c’era l’urgenza di raccontarmi o, se c’era, era molto attutita.
Con De André a fine anni 70, Idroscalo di Milano, cercando emozioni sulle montagne russe.
Ci divertimmo molto. Fu una delle ultime volte che lo vidi. Ma ci eravamo persi prima, durante un viaggio canadese in cui litigammo per motivi banali. Sulla carta l’itinerario sentimentale era perfetto. Io, Fabrizio e due ragazze che sarebbero diventate le nostre mogli. Ma sulla strada cumulammo banali incomprensioni. Uno pensa: ‘De André e De Gregori avran rotto sui massimi sistemi’. Troppo facile. Si chiude per un’inezia.
Ce la racconta?
Fabrizio era nervoso. Non conosceva l’inglese e a Toronto il suo ottimo francese si rivelò inutile. Al disappunto iniziale per l’impotenza espressiva, si aggiunsero piccoli tasselli di reciproca incomprensione. Acquistò un Winchester e pretendeva di sistemarlo in auto. Mi ribellai. E mi opposi all’idea che guidasse lui senza patente, con la macchina noleggiata a mio nome. Ci separammo davanti al lago di un’isoletta canadese. Quando poi lo rapirono, telefonai a sua moglie per avere notizie. Era ancora nelle mani dell’Anonima. Una volta libero mi chiamò: ‘Belìn, so che sei stato carino con la Puni, che figlio di puttana, grazie’. Fu gentile, ma ormai ci eravamo persi di vista. Questi sono i miei ricordi. Ma esiste la memoria selettiva e Fabrizio probabilmente l’avrebbe raccontata diversamente.
La leggenda del De Gregori furioso, dal carattere aspro. Litigò anche con Dalla?
Al termine di Banana Republic ci fu un allontanamento fisiologico. Siamo... eravamo due persone molto diverse, ma di fronte a un rapporto umano specialissimo le incomprensioni del passato passano veramente in secondo piano. C’erano motivi di scontro, su inezie ricomponibili e sempre ricomposte, anche se in certi momenti lui non telefonava a me, né io a lui.
“Telefonami tra 20 anni, io adesso non so cosa dirti, non so risponderti e non ho voglia di capirti”.
Non ci siamo mai veramente persi di vista. I miei ricordi recenti sono molto teneri. Prevale il lato più domestico della vicenda. Non tanto il lavoro condiviso sul palco, ma i fotogrammi privati. Lucio che arriva affaticato in camerino e, dopo il concerto, è ringiovanito. O ancora lui che scherza e si leva la maglietta e mostra i pettorali: ‘Guarda che fico che sono’. Sentirlo cantare le mie canzoni è stato meraviglioso. Scorgere il suo divertimento mentre interpretavo le sue, sorprendente. La condivisione, la sintonia e la lunghissima frequentazione, eventi miracolosi. Ora tutti parlano di Lucio, ma al tempo della seconda tournée molti giornalisti furono volgari. Dissero cose orrende. ‘Ecco due cantanti finiti alla ricerca degli ultimi spiccioli’. E adesso che è morto, Lucio di qua e Lucio di là... ma per favore.
Il primo incontro?
Alla It, la casa discografica di Vincenzo Micocci. Lucio aveva già fatto “4 marzo” e doveva ancora incontrare Roversi. Ci acchiappammo subito. Era straordinario, divertente, intelligente. Diverso dagli altri, ma capace di mettersi in comunicazione con chiunque. Sapeva stare al gioco. Aveva un’istrionica potenza da cui eravamo tutti irresistibilmente attratti. Alla It c’era Venditti, come me, ragazzino di bottega in quella piccola casa discografica. Dalla sconvolgeva anche lui.
Alla It passarono in tanti.
Una compagnia di giro. Negli studi Rca, consorella maggiore della It, il bivacco era quotidiano. Rino Gaetano, Fossati, Baglioni, Renato Zero. Era fortissimo, Renato. Non ancora baciato dal successo, ma si travestiva già. È sempre stato coerente, non si sarebbe mai messo le ali o il trucco per compiacere il pubblico.
Baglioni e quell’elemosina a Trastevere...
Eravamo andati a mangiare alla Rosetta, trattandoci benissimo. Poi un po’ bevuti, non so perché, ci improvvisammo situazionisti. Forse per emulare i Beatles sui tetti di Abbey Road, forse aggrediti da megalomanìa. Tirammo fuori le chitarre: “Ora si bloccherà il traffico”. Non ci si filò nessuno. A Baglioni mi lega un altro episodio.
Quale?
Claudio aveva conosciuto uno che lo voleva intortare per fare un film e, un po’ come Ismaele, mi si caricò sulle spalle e disse ‘Ahò, vieni pure tu’. Andammo in un bizzarro posto, sede della produzione, dove un tipo ci fece proposte ardite che accogliemmo dandocela a gambe.
Altre avventure cinèfile?
Un cammeo per Battiato in ‘Del perduto amor’. Franco mi è molto simpatico, ero curioso, con me c’era anche Morgan. Poi sfiorai Fellini, all’epoca del Folkstudio.
“Fiori falsi e sogni veri nella friggitoria chantant”. Sperimentazione, albe in via Garibaldi.
Molti amici. Tra loro Paolo Pietrangeli, appena assunto da Fellini in vista di Roma. Era il ’71, Paolo arrivò trafelato: ‘Il maestro cerca un protagonista, ho pensato potresti essere tu’. Capirai, a 18 anni, con l’ansia di mordere la vita, andai di corsa. A Fellini, come si dice a Roma, avrei portato l’acqua con le orecchie. Lo incontro a Cinecittà, dietro la scrivania. Professionale e informale: ‘Ciao, cammina un po’’. Poi fa a Pietrangeli: ‘Ti avevo detto che lo volevo magrolino, basso e bruno. Tu mi porti questo bel ragazzo alto e biondo, cosa me ne faccio?’.
Nelle atmosfere del Folkstudio lei e Venditti creaste "Theorius Campus".
Prodotto sempre da Micocci, un grande discografico di leggendaria avarizia. Lo avvicinavi mellifluo per gli anticipi sulle royalties: ‘Devo partire con la mia ragazza per una fuga d’amore’ e lui prendeva tempo: ‘Quando?’. Poi, tra promesse e menzogne, si danzava incerti. ‘Partirei tra una settimana’, ‘Passa tra un mese’. Dopo un mese ti presentavi speranzoso, venivi respinto un altro paio di volte e infine conquistavi un assegno con la metà della cifra pattuita. Theorius Campus è figlio di un viaggio in Ungheria a cui avrebbe dovuto partecipare Giorgio Lo Cascio, il nostro amico del Folkstudio. Giorgio si innamorò follemente di una donna bellissima, la sposò e rinunciò a partire. Andai da Antonello e gli dissi: ‘Pagano tutto, vieni tu?’. Emigrammo oltrecortina, per me fu la prima e l’ultima volta. L’Ungheria non era quella del ’56 e non somigliava alla Ddr, ma faceva impressione. Ci portavano per scuole e università, cantavamo 6 volte al giorno. Il partito controllava ogni respiro. La macchina arrivava di mattina presto, autista già totalmente ubriaco. Grappa d’albicocca, forse sbaglio.
I soldi sono stati importanti?
Piacciono a tutti e sarei ipocrita a dire che è meglio non averli, ma non han mai condizionato il mio percorso artistico o personale. Le scelte più importanti della vita non le ho fatte per soldi.
Mai ricevuto offerte che avrebbero messo in crisi integrità o coscienza?
Facendo certe cose avrei potuto guadagnare molto e senza vendere l’anima al diavolo. Non ho un’opinione moralistica della contaminazione commerciale, ma credo fermamente che coerenza e libertà stiano nel non fare quel che non ti piace fare. Un lusso che mi sono sempre permesso, anche quando non avevo una lira.
La gavetta. Lo Cascio confessò lo sgomento nel vedere lei e Venditti abbigliati in maniera improbabile per una comparsata in tv.
Micocci aveva miracolosamente trovato un passaggio televisivo per me e Antonello. Non ci voleva nessuno e, per partecipare, avremmo dovuto rimanere a Torino per tre giorni. Nella trasmissione dominava l’antesignano del trash. Per esigenze di scena i nostri colleghi erano stati travestiti. Chi da Cowboy, chi da paggio del ‘700.
Chi c’era?
Gino Paoli, Claudio Villa, Iva Zanicchi. Un fritto misto di tendenze di cui io e Antonello avremmo dovuto rappresentare l’avanguardia. Eravamo abbastanza burberi e indisposti a fare compromessi, ma non potevamo tornare indietro. Micocci ci avrebbe ammazzato, così, pur soffrendo come cani, resistemmo. Alla fine optammo per il costume meno devastante. Con cappellaccio e grembiule color paglia, eravamo diventati due autisti di autoambulanza del primo ‘900.
Oggi come vanno i rapporti con Venditti?
Non molto stretti, ma non abbiamo litigato.
Ai tempi del grande freddo, tra il tramonto dei ’70 e l’inizio degli ’80, lui le dedicò “Francesco”. Era prostrato per averle rubato dalle tasche e dalla bocca “rubini puri” e “cioccolata”.
Mi chiese scusa in musica, non so perché. Io non mi sono mai sentito derubato da nessuno. Tantomeno da Antonello. In ogni caso, a scanso di equivoci, ‘il pianista di piano bar’ non era lui.
Davvero? Ne eravamo sicuri. Con lei la manìa dell’identificazione forzata fa prendere la mano.
Ogni tanto la realtà entrava nelle canzoni. Nel “Signor Hood”, l’uomo assalito dai parenti ingordi sulla strada di Pescara, la città che amavo e in cui avevo trascorso momenti importanti, era Marco Pannella, di ascendenze abruzzesi.
Pannella aveva canestri di parole nuove e l’indole dell’impaziente. Non dissimile dal De Gregori che in una lontana preistoria televisiva ribalta il tavolo e lascia il Mago Zurlì senza parole.
Mi trattarono male, mi chiesero i documenti, furono scortesi. Mi irritai e me ne andai perché una certa tv era e a volte è tuttora così. Un posto in cui ti impediscono di essere te stesso e sei obbligato a partecipare a una pantomima. Fu così anche allora e anche se i patti erano chiari, a farmi fuggire fu l’atteggiamento del mago. Quando lo inquadravano con i bambini era svenevole, ma dava l’impressione di non sopportarli. Feci per andarmene, ma sulla porta venni fermato dalla segretaria di uno degli autori: ‘Stia attento, il dottore se la legherà al dito’. ‘Per me se la può legare al...’. Uscii. Telefonai alla mia ombra, Michele Mondella e andai giù secco: ‘Sono fuori da Porta Carlo Magno’. ‘E perché?’. ‘Perché il programma non lo faccio più’. Mondella prese un aereo, tentò invano di convincermi e alla fine, preferimmo andare al ristorante.
Vero che il primo successo di “Alice” la infastidì?
No, assolutamente, il successo non mi ha mai dato fastidio. E chi tra i miei colleghi lo sostiene, mente. Averlo avuto, coltivarlo e conservarlo fa parte del gioco. Non devi esserne schiavo, ma avere l’equilibrio per accogliere il momento in cui non arriva con serenità, è un dono. Il problema è che al tempo di “Alice” facevo già qualche seratina. Piccoli concerti in cui il pubblico che voleva ascoltare la storia di Cesare perduto nella pioggia per tre volte in tre quarti d’ora, mostrava plateale menefreghismo per gli altri 20 pezzi del repertorio. Magari erano meno belli, ma l’idea che la gente fosse prigioniera del meccanismo del già ascoltato, già sentito e già famoso era deludente. Potevano scoprire il bagaglio di strane cose che mi trascinavo dietro e invece urlavano: ‘Ahò, rifacce Alice’. Ma che mondo è?
Altre canzoni suonate in quelle esibizioni?
“1940”, “Marianna al bivio”, “I musicanti” e altre ancora che non finirono in nessun altro disco.
Ad esempio “De Gregori era morto”.
Quella l’ho scritta più tardi, però poi non la incisi. Mi sembrava eccessivamente autoreferenziale, ma so che in rete gira un’incisione presa al Folkstudio. È cantata da me o da altri?
Da lei. Ha un testo da oracolo. “De Gregori era morto/ucciso dal suo ultimo Lp e dai suoi profeti”. Tra le righe si trovano già Hilde e i menestrelli per brevità chiamati artisti.
Non l’ho mai registrata né risentita. Ripensando a quel che accadde dopo, comprendo la tentazione di rileggerlo come un brano profetico.
Allude alla violenta contestazione subita al Palalido il 2 aprile ‘76? Urla, insulti, fumogeni, cazzotti, processi kafkiani. “La rivolta non si fa con le canzoni, Majakovskij era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu”.
Non alludo a niente, ma spesso incontro gente che si dice più a sinistra di me. In un certo senso sono sempre stato a destra di qualcuno. Il Palalido non è stato lo choc della mia vita, come si è detto, ma un episodio spiacevole. Ancor più spiacevole è che se ne parli ancora. Per me è una storia lontanissima che ho spiegato da ogni punto di vista. Personale, storico, politico, emotivo. Interessante casomai sarebbe ascoltare la versione degli altri. La truppa dei contestatori era formata da ragazzi normali, i capi invece erano dei fighetti. E io ai fighetti non sono mai piaciuto.
“Ci sono posti dove sono stato/ Mi ci volevano inchiodare/ ai loro anni ciechi e sordi/ ai loro amori raccontati male” ha cantato una volta. Ha mai cercato i contestatori di quella notte? Parlato con loro? Nel gruppo c’erano la figlia di Giorgio Bocca, Nicoletta, e l’inventore di Stampalternativa, Marcello Baraghini.
Dovreste parlarci voi giornalisti, non io.
Sui fatti di quel 2 aprile Roberto Vecchioni scrisse Vaudeville. “E spararono al cantautore in una notte di gioventù/gli spararono per amore/per non farlo cantare più".
So che scrisse una canzone, ma non l’ho mai sentita. Sentire il riferimento alle pistole e la parola cantautore cantata da un altro cantautore, mi respinge. Con buona pace di Vecchioni, non fui entusiasta dell’omaggio.
Reazione comune ai poeti da lei tanto vituperati. Nelle storie di ieri sono brutte, bugiarde creature. In “Poeti per l’estate” diventano presenzialisti bifronti. Firmano grandi appelli per la guerra e la fame/vecchi mosconi ipocriti/vecchie puttane”.
Di quell’insulto mi pentii. So che a Marco Lodoli e Silvia Bre, che a quei tempi non conoscevo, la canzone non piacque per niente. Ce l’avevo molto con quelli che andavano in tv col libro in mano, a promuoverlo. Quelli che in una pausa, zac, tiravano fuori il tomo e spostavano il discorso sulla loro ultima, fondamentale opera.
“Però l’avvenimento/ il più spettacolare/ è quando in televisione li vedi arrivare/ profetici e poetici/ sportivi ed eleganti/pubblicare loro stessi come fanno i cantanti”.
Certo, faceva così, però se il cantante oggi mette mezzo piede in tv trova subito il talebano che ti attacca. ‘Orrore, si fa pubblicità!’. Nei talk show invece, si parla delle sorti progressive del Paese e dal nulla, ineluttabile come il Natale, spunta l’automarchetta.
Quando dicono poeta a lei?
Non lo trovo giusto. La gente pensa di farmi un complimento, ma è una definizione sbagliata. Io scrivo canzoni e per quanta attenzione puoi porre al testo, rimangono tali. La poesia è un’altra cosa. Trovare qualcuno che fischietta un mio motivo è semplice, ma portatemi uno che reciti “La donna cannone” a memoria. Ne trovate pochi.
Altre canzoni che vorrebbe non aver scritto?
Qualche verso qua e là. In “Cercando un altro Egitto”, un trattato sull’idea di non appartenere più a un luogo da cui ci si sente minacciati, ce n’era uno bruttissimo sulle gelaterie di lampone che fumano lente e i bambini che volano.
L’orrore di un lager in metafora.
Un verso pessimo, troppo barocco, ci stavo ripensando proprio l’altro giorno.
Si è allontanato quel tanto che basta per guadagnarsi la nostalgia?
È uno strano sentimento. Sono molto legato ad alcuni panorami, anche geografici del mio passato. A una Roma che non esiste più.
I simpatici le stanno ancora antipatici?
Come e più di ieri. E i comici mi rendono triste, mi fa paura il silenzio e non sopporto il rumore, proprio come nella mia canzone.
E l’Italia che incontra?
Eccola, è tutta qui (mostra il camerino nda). Vado, canto, riparto. Mi sono fatto l’idea che sono troppo vecchio per capirla. Preferisco tacere. E stare in ascolto.
Parliamo di politica?
Per carità, tutti mi chiedono di Grillo. Ma vedo che in moltissimi hanno molto da dire. Non sopporto il chiacchiericcio di chi pensa di avere cose interessanti da dire solo perché è noto. Mi ricorda quelli che al bar sono tutti commissari tecnici della Nazionale.
I critici musicali ascoltano ancora i dischi che recensiscono?
Non sentono più niente o magari semplicemente non ascoltano i miei. Di me e altri miei colleghi si discute pigramente. ‘Han dato il meglio 20 anni fa, dopo solo decadenza e precipizio’. Non sono per niente d’accordo. Ma che ci posso fare?
L’hanno scritto anche di Lucio Battisti.
“Hegel”. “Cosa succederà alla ragazza”, “Don Giovanni”. Gli album con Panella sono meravigliosi. Capolavori difficili, ma capolavori.
In “Vecchi amici” c’è il feroce ritratto di un giornalista.
Vi rivelo una cosa, però poi mi fermo. Nella prima strofa c’è una persona, nella seconda un’altra.
Due distinte personalità. Si vociferò che il brano fosse figlio d’un dissidio con Gino Castaldo, il critico di Repubblica.
Non posso commentare. Non è né vero né falso, ma la canzone è rock, ha ritmo, mi piace e nei concerti la ripropongo spesso come cambio di registro musicale. Peccato per la durezza del testo. Un po’ come “Poeti per l’estate”, preferirei non averla scritta. Non voglio più dare l’ispirazione ad affreschi malmostosi. Non me ne frega niente. A quasi 62 anni, se devo mandare qualcuno al diavolo, ce lo mando direttamente.