Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 23 Sabato calendario

APERTURA DEL FOGLIO DEI FOGLI DEL 25 MARZO 2013

Trecentosedici alla Camera, 158 al Senato. Sono questi i numeri che Pier Luigi Bersani deve raggiungere per ottenere la fiducia in Parlamento al suo programma di governo. Affidando al segretario Pd l’«incarico di verificare l’esistenza di un consenso parlamentare certo», Giorgio Napolitano venerdì scorso è stato chiaro su quali siano i binari entro cui dovrà muoversi. «Tre i paletti. Uno sta nella forma, ossia la scelta di un pre-incarico che può diventare pieno solo sulla base di numeri parlamentari. Il secondo è quello sui contenuti perché Napolitano mette al centro del nuovo esecutivo non la crisi finanziaria ma quella dei partiti e delle istituzioni. Infine, i tempi che ha concesso a Bersani sono apparsi – anche questi – una condizione, espressa nella formula del ritorno al Colle “appena possibile”». [1]

Il mandato conferito al segretario del Pd è del tutto simile a un paio di precedenti che ci riportano all’era della presidenza Scalfaro. Quello del 13 ottobre 1998, affidato a Romano Prodi, il quale fallì nell’impresa di assicurarsi una fiducia di cui non disponeva. E quello risalente a tre giorni più tardi, con l’investitura di Massimo D’Alema, che ebbe invece successo grazie al soccorso delle cosiddette «truppe mastellate» messegli a disposizione da Francesco Cossiga. Oggi come allora si tratta di un «incarico a riferire», con conclusioni positive e concrete, «l’esistenza certa» di una maggioranza. Cioè di un accordo certificato dai numeri, mentre non ammetterebbe una scommessa per andare alla cieca in Parlamento. [2]

L’attuale condizione di Bersani si può riassumere così: il suo interlocutore privilegiato, il Movimento 5 stelle, non sembra avere alcuna intenzione di dargli una mano. Grillo si considera un avversario storico di Bersani e i suoi seguaci insistono nel porre la questione dei rimborsi elettorali come premessa di qualsiasi negoziato. Poi c’è Monti, il cui appoggio è nell’ordine delle cose prevedibili. Infine ci sono Berlusconi e il Pdl. Stefano Folli: «Il presidente della Repubblica ha lasciato capire in una forma esplicita che la grande coalizione sarebbe la soluzione più idonea per affrontare l’emergenza e anche per mettere in cantiere le riforme istituzionali urgenti (costi della politica, snellimento operativo, tagli, nuova legge elettorale). Ma poiché tale soluzione non è a portata di mano, occorre agire come se ci si trovasse nonostante tutto in quella condizione e con analogo spirito». [3]

«Bersani è un politico consumato e ha già dimostrato, nella vicenda dell’elezione dei presidenti delle Camere, di saper cambiar gioco, pur di arrivare al risultato. Ma stavolta, più che sperimentare una nuova tattica, si tratterebbe di fare un miracolo, come quello, s’intuisce da quel che è stato detto sul Colle, di convincere il Movimento 5 Stelle o il centrodestra, tutto o in parte, a lasciar partire il governo (con un’astensione o uscendo dall’aula del Senato) sulla base di un accordo-cornice sulle riforme istituzionali, che non necessariamente vincoli a far parte di una maggioranza» (Marcello Sorgi). [4]

Alla Camera la coalizione di centrosinistra è autosufficiente. Grazie al premio previsto dal Porcellum ha 345 seggi e la maggioranza necessaria è di 316. Il vero problema è al Senato. Qui Bersani può contare solo su 122 voti certi (erano 123, ma Pietro Grasso è stato eletto presidente e non vota). E la maggioranza per ottenere la fiducia è fissata a quota 160, compresi i senatori a vita. [5]

Il segretario Pd ha affidato al capogruppo al Senato Luigi Zanda la missione di recuperare 15-20 voti per raggiungere quota 160. Gli sherpa sono al lavoro da settimane per accertare le condizioni minime per raggiungere l’obiettivo: l’appoggio dei 21 senatori della lista Monti che insieme ai 7 della Svp (alcuni eletti con il concorso del Pd) porterebbero il fronte governativo a 145 voti (una parte dei quali risultano nel gruppo misto), se si considera anche quello certo di Giuseppe Lumia, eletto in Sicilia con la lista Crocetta. Dino Martirano: «Il capo dello Stato, però, vuole di più: chiede dichiarazioni di voto alla luce del sole, senza sotterfugi dell’ultimo minuto. Per cui la tattica delle assenze pilotate, capaci di abbassare il quorum non dovrebbe funzionare con l’attuale inquilino del Quirinale che, proprio perché in scadenza di mandato, non ha intenzione di autorizzare operazioni al buio». [5]

Un primo scenario prevede il coinvolgimento dell’intero gruppo della Lega (16 senatori) e di una parte di senatori del Pdl magari pescati tra quei dieci parlamentari confluiti nel gruppo Grandi autonomie e libertà. Tra di loro c’è anche Giovanni Emanuele Bilardi (Grande Sud) che, per bocca di Gianfranco Miccichè, ha già posto le sue condizioni: «Rilancio del Mezzogiorno unica condizione per il sostegno di Grande Sud al futuro governo». Gli altri componenti del gruppo fiancheggiatore del Pdl sono di sicura fede berlusconiana per cui un loro travaso nel fronte governativo potrebbe essere possibile solo se autorizzati dal Cavaliere. Il primo scenario teorico (Pd, gruppo Misto, Grandi autonomie e libertà, Svp e Psi, Scelta civica, Lega) potrebbe assicurare 164 voti al nascituro governo Bersani. [6]

Il secondo scenario prevede un soccorso a Bersani sotto forma di spezzatino: 163 voti a favore della fiducia. «La “stampella”, sempre autorizzata da Berlusconi, non arriverebbe dal blocco della Lega ma da un concorso di più partiti: i 9-10 di Grandi autonomie e libertà, 5 o più grillini, 5 leghisti autorizzati da Maroni, 5 pidiellini pontieri e/o responsabili. E il colmo sarebbe se Silvio Berlusconi, senza il cui apporto questa missione impossibile non riuscirà, rispedisse al mittente anche i veri “responsabili” (Scilipoti e Razzi, per intenderci) per garantire almeno l’avvio del governo Bersani. Ma questo sarebbe il più grande dei regali per Beppe Grillo». [5]

Purtroppo per Bersani nulla è garantito. Neppure il sostegno di Monti che nel Pd si tende a considerare come sicuro. Spiega Ugo Magri: «Per certi aspetti, anzi, è proprio col Professore che Bersani dovrà più faticare. Questione di stati d’animo, di repulsioni profonde per una certa meschinità che il premier uscente ha ravvisato nei suoi confronti. Lo amareggia il modo in cui certi giornali hanno presentato la disponibilità a farsi eleggere presidente del Senato, quasi che lui fosse mosso da sfrenata ambizione. No, spiega chi lo frequenta, Monti non farà alcun passo per entrare al governo. Impossibile, insistono i fedelissimi, incasellare dentro un ministero un uomo della sua levatura. Se Bersani glielo dovesse offrire in cambio dell’appoggio, riceverebbe un no». [7]

Intanto nel Movimento 5 stelle cresce il malumore per la linea di chiusura totale imposta da Grillo. «È l’ala trattativista del Movimento – minoritaria ma non irrilevante – quella che era riuscita a far votare la disponibilità a discutere col Pd la suddivisione delle cariche istituzionali. Quella che ora vorrebbe ragionare sulla possibilità di un accordo governativo. “Molti non parlano per paura. Ma il giorno della fiducia non escluderei sorprese. Avete letto quello che dice Crocetta? Beh, ha ragione”, confida un senatore siciliano. Crocetta, allora. Il governatore dell’Isola, che a proposito di un sostegno Cinque stelle a Bersani sostiene: “Se Bersani presenta un programma di grande rinnovamento e ci sono punti condivisi, non capisco perché i grillini pretestuosamente debbano dire di no. Conosco molti deputati e senatori M5s che non condividono la scelta dell’Aventino”». [8]

«Proporrò un governo sobrio, innovativo e aperto», ha fatto sapere Bersani. Significa 15 ministri invece degli attuali 18, volti nuovi, anche esterni ai partiti. Il segretario del Pd ripartirà dal programma in otto punti: anticorruzione, conflitto d’interessi, moralità della vita pubblica, l’economia, la questione sociale e i temi ambientali. Goffredo De Marchis: «La squadra prenderà la forma di quello che al Pd chiamano il “governo civico”. I nomi si rincorrono seguendo questo identikit. Oscar Farinetti, inventore di Eataly, l’autrice di Report Milena Gabanelli, l’ex direttore di Confindustria Giampaolo Galli, il giurista Stefano Rodotà, la certezza di Fabrizio Saccomani, direttore generale di Bankitalia, al ministero dell’Economia. Il metodo “Grasso-Boldrini” però contiene una buona dose di incertezze e di sorprese dell’ultimo minuto». [9]

Se Bersani non ce la dovesse fare, se le larghe intese continueranno a non essere percorribili, l’unica opzione che resta è proprio quella del “governo del Presidente”. «Ma c’è un dettaglio da non sottovalutare, ovvero che a nominare il premier di garanzia sarebbe un Presidente della Repubblica in scadenza. Anche per questo probabilmente si rafforzano in queste ore le voci di una rielezione dello stesso Napolitano, nonostante la netta contrarietà manifestata ripetutamente in pubblico e in privato dall’attuale Capo dello Stato. Pur non volendo fare forzature, i giudizi altamente positivi espressi da Berlusconi nei confronti delle indicazioni giunte ieri da Napolitano, così come quelli di Scelta civica non possono essere sottovalutati» (Barbara Fiammeri). [10]

Quello che è certo è che Napolitano non vuole nuove elezioni e anche se dovesse essere rieletto non scioglierà le Camere. Prima ci sono da realizzare almeno cinque punti programmatici, che si intravedono anche attraverso la trama del discorso diffuso venerdì: consolidamento del rapporto con l’Europa dopo le ventate distruttive della campagna elettorale provocate da Grillo e Berlusconi, pagamento alle imprese dei 70 miliardi di debito dello Stato, provvedimenti per l’occupazione, taglio dei costi della politica e, soprattutto abbandono di questa legge elettorale voluta nel 2005. Rivotando con questa legge elettorale, infatti, c’è una certa probabilità che il risultato si ripeta. E, ormai dovrebbe essere chiaro, con i pareggi non si va da nessuna parte. [11]

Note: [1] Lina Palmerini, Il Sole 24 Ore 23/3; [2] Marzio Breda, Corriere della Sera 23/3; [3] Stefano Folli, Il Sole 24 Ore 23/3; [4] Marcello Sorgi, La Stampa 23/3; [5] Ninni Andriolo, l’Unità 23/3; [5] Dino Martirano, Corriere della Sera 23/3; [6] Alberto Gentili, Il Messaggero 23/3; [7] Ugo Magri, La Stampa 23/3; [8] Andrea Malaguti, La Stampa 23/3; [9] Goffredo De Marchis, la Repubblica 23/3; [10] Barbara Fiammeri, Il Sole 24 Ore 23/3; [11] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 23/3.