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 2013  marzo 22 Venerdì calendario

BERRUTI RIMANE SOLO: «TROPPO TORMENTATO PER ANDARCI D’ACCORDO»

«Mennea era abituato a vincere, ma ha perso la battaglia più importante: quella per la vita».
Livio Berruti, indimenticato oro nei 200 a Roma ’60, antesignano e nemesi di Pietro Mennea, 74 anni il 19 maggio. Perché lei e Mennea non vi siete mai piaciuti?
«Perché appartenevamo a mondi diversi e antitetici. Io con il sorriso e la gioia di fare atletica, lui sempre tormentato e sofferente: il più grande masochista della storia della velocità».
Rispetto tra voi, però, c’era.
«Da parte mia, senz’altro: rispettavo la sua dedizione e il suo atteggiamento maniacale. Lo sport, però, deve essere esempio per i giovani e io ancora oggi mi chiedo: quanto è stato utile tramandare quell’immagine di sofferenza?».
Che severità, Livio...
«Sara Simeoni a Mosca ’80 trasudava gioia. Ma lui no: non ha saputo trasmettere un esempio positivo...».
Nel 1979 il fattaccio. Poi non avete più voluto ricucire.
«Mennea rinunciò ad andare a correre a Zurigo. In un’intervista al Giorno dissi che aveva paura di essere battuto dagli americani. Si offese. Dopo qualche giorno, a Formia, venni fisicamente assalito dal fratello di Mennea, mentre lui mi insultava con la bava alla bocca. Schivai un pugno, poi intervenne Azzaro a separarci. Capii che eravamo rette parallele, destinate a non incontrarci mai».
E infatti l’ultima volta quando accadde?
«Molti anni fa, in Rai. Gianni Minà cercò di farci riappacificare. Mennea in quell’occasione mi regalò una maglia incellophanata, dicendo che era quella dell’Olimpiade di Mosca. A casa, quando la aprii, mi accorsi che non era vero: era una qualsiasi maglia azzurra da gara...! Raccontai a un giornalista che non aveva mantenuto la promessa, e quello lo scrisse. Mennea mi querelò».
Incomunicabilità totale, insomma.
«Era chiuso e scontroso. Incredibilmente suscettibile. Io ero Platone, lui Aristotele: agli antipodi. Del tormento ed estasi di Michelangelo, Mennea era solo tormento».
Nessuno sapeva che fosse malato.
«La sua chiusura era caratteriale. Considerava il mondo un nemico e per dare il meglio doveva sentirsi solo contro tutti. Lo sport è bello e ti fa vivere meglio, però purtroppo non ti allunga la vita».
Invecchiare non lo aveva ammorbidito?
«Ho la sensazione che negli ultimi anni avesse un po’ modificato il suo sguardo ascetico verso lo sport, aprendosi a una maggior comprensione dei valori ad esso connessi».
L’avvento di Usain Bolt, con la sua straripante gioia di vivere e vincere, potrebbe averlo influenzato, secondo lei?
«Penso di sì. Bolt lo ha aiutato a capire che lo sport non è solo macerazione nella sofferenza: è stato l’esempio eclatante che si può trionfare e fare record con quel sorriso che Mennea non si è mai permesso. Era proprio un limite fisiologico, il suo».
E se vi foste affrontati in pista, nei 200, come sarebbe finita...?
«E chi lo sa? La verità è che ognuno è campione del suo tempo: io vivevo di slanci dilettantistici, lui portò all’esasperazione il concetto di professionismo. Io correvo sulla terra battuta, lui sul sintetico. Io ero per lo sport come divertimento e lui come affermazione del proprio ego».
Berruti, andrà al funerale di Mennea?
«No. Per coerenza con me stesso. Vivrò un cordoglio a distanza, come distanti siamo sempre stati».
Ma le mancherà, Mennea, almeno un po’?
«Sono d’accordo con Hegel quando diceva che il progresso è la dialettica degli opposti. Da ieri, ecco, mi mancherà il mio opposto».
Gaia Piccardi