Enrico Mannucci, Sette 22/3/2013, 22 marzo 2013
GIORNALISTI AL FRONTE ACCOLTI COME CANI IN CHIESA
Il racconto di molte canzoni neanche troppo bellicose intonate nelle sere di accampamento, altrettante descrizioni della natura ostile che i soldati dovevano fronteggiare prima ancora del nemico, continue lamentele con i direttori sulle difficoltà logistiche per trasmettere gli articoli, poco, pochissimo sulla reale situazione bellica, sull’andamento del fronte. In sostanza, “accolti come i cani in chiesa”, ostacolati dallo Stato Maggiore, talvolta osservati con diffidenza dalla truppa: si sentivano così i corrispondenti di guerra italiani in Nord Africa durante la Seconda guerra mondiale. La loro situazione viene ricostruita in un saggio che esce sul prossimo numero di Nuova Storia Contemporanea (editore Le Lettere) da Fabio Fattore, un giornalista del Messaggero che ha scavato nelle carte conservate all’Archivio Centrale dello Stato e in quello del Corriere della Sera. Filo conduttore sono la corrispondenza e gli appunti di Paolo Monelli, assieme alle testimonianze di altri giornalisti del Corriere: veterani come Achille Benedetti, giovani di belle promesse, come Domenico Bartoli, professionisti già affermati come Virgilio Lilli. Approdando sulla Quarta Sponda, entrano a far parte del Nucleo corrispondenti di guerra in Africa settentrionale, comandato da Giorgio Pini, redattore capo al Popolo d’Italia. Il che non significa un accesso davvero privilegiato a fonti e notizie.
Divieti che costringono ai ritardi. Le carte presentate ora descrivono un calvario di frustrazioni giornalistiche, anche quando le cose vanno militarmente bene per l’Asse. «Le ragioni della scarsa collaborazione dei militari, che in certi casi raggiunge l’ostracismo, stanno nell’importanza diversa che le forze armate e il partito fascista attribuiscono all’informazione e, quindi, alla propaganda», scrive Fattore. Del resto, i rapporti fra armi e stampa sono stati sempre difficili in Italia, con qualche eccezione: per esempio Ugo Ojetti che durante la Grande Guerra trovò profonda sintonia col generalissimo Cadorna, tanto che qualcuno ha sospettato scrivesse lui i più importanti comunicati del quartier generale.
Nel caso africano, a complicare le cose contribuisce la formula (meglio sarebbe dire, il compromesso) adottata da Roma: i corrispondenti sono richiamati sotto le armi – quindi agli ordini dei comandi militari - ma, contemporaneamente, devono rispondere alle loro direzioni e al ministero della Cultura Popolare. In questo guazzabuglio di direttive, capitano spesso gli impicci. Il divieto di far base oltre Derna (città della Libia nord-orientale) costringe gli inviati a lunghi e massacranti viaggi di andata e ritorno dalle parti del fronte. Il che, poi, significa ritardi nella spedizione degli articoli, aggravati dalla mancanza di proprie attrezzature di comunicazione e dall’intasamento di quelle militari a disposizione: quando Bengasi viene riconquistata, nel gennaio 1942, le corrispondenze arrivano solo l’8 febbraio sulle pagine dei quotidiani nazionali. In altra occasione, Benedetti scriverà al direttore Aldo Borelli di fare il possibile perché «gli articoli siano pubblicati oppure ci richiamino in Italia per farci ritornare quando il ministero lo riterrà opportuno. È perfettamente inutile arrischiare la pelle senza alcun costrutto». Perché entra in gioco anche la censura. Non tanto quella politica, già ben organizzata dal regime fascista. Da questo lato ci sono pochi problemi: i giornalisti inviati la conoscono bene, la condividono per scelta ideologica o l’hanno perfettamente assimilata nel loro abito professionale. Piuttosto quella militare, spesso ottusamente pignola. Scrive Monelli al direttore, nel settembre ’42: «Vedo che di nuovo hanno sospeso i miei articoli: né quello sul teatro del guastatore, né quello sulla pista ho veduto, e temo che il mio ultimo, la buca, subirà la stessa sorte». E pensare che non si tratta di resoconti sulle operazioni belliche, all’epoca già poco propizie per le nostre armi. Si tratta, in genere, di quelle che una disposizione di Alessandro Pavolini definisce “di terza pagina”: «Non perché siano di colore, ma perché non contengono notizie di carattere militare, ma illustrano gli aspetti della vita del soldato nel deserto». Che non è facile o dolce, ovviamente. Monelli parla delle “sette piaghe” del fante: mosche, vento, sete, attacchi aerei, solitudine («La sesta piaga, e la settima, non ve le dico…»).
Solo notizie sulla vita dei soldati. Non è disfattismo, semmai «una maniera più sottile di esaltare le virtù italiane forgiate da vent’anni di fascismo», come nota Fattore. Ma, evidentemente, i controllori militari spesso non lo capiscono. Scrive Lilli a Borelli: «La nostra propaganda è tutta sbagliata. Ai soldati scoccia immensamente che si dia a bere che stanno benone, che si sentono vicinissimi a casa e simili. Fa loro piacere essere un poco compassionati, e che si sappia per esempio che soffrono il freddo e magari la fame. Quando noi diciamo che la guerra è cosa semplice o rosea essi combattono male, si arrabbiano, otteniamo l’effetto contrario». E Monelli si lamenta: «Noi siamo legati da cinque censure», oppure «Se la censura non fa la solita strage…». Finisce così che le corrispondenze, come voleva Pavolini, si concentrano sulla vita dei soldati più che sull’andamento della guerra: le canzoni intonate a sera negli accampamenti, «con il solito pensierino per la ragazza». Oppure schizzano colti bozzetti di paesaggio. Visitando i confini della depressione di El Qattara, Monelli scrive a fine agosto 1942: «Sembra il modello di un mondo nuovo ove collocarci con le nostre aspirazioni ad una realtà nuda, metafisica; è quello rappresentato da de Chirico, da Carrà, da Morandi nei loro quadri». Poche settimane dopo la Folgore sarà ingaggiata da quelle parti nella disperata battaglia finale di El Alamein. Ma, all’epoca, i corrispondenti dal fronte nordafricano non sono più tali, il Nucleo è stato smobilitato e quasi tutti i giornalisti sono tornati in Italia. Con qualche malizia Fattore riferisce: «Monelli chiude l’esperienza africana con la richiesta di rimborso all’amministrazione del Corriere per gli effetti personali che aveva lasciato in custodia al Nucleo corrispondenti: fa passare quasi un mese dalla resa della Ia Armata in Tunisia e presenta un conto di ottomila lire allegando la lista che comprende l’equipaggiamento, l’abbigliamento alpino e borghese e “un’intiera uniforme fascista con cinturone e stivaloni e relative camicie”».