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 2013  marzo 22 Venerdì calendario

NON C’È PIÙ RISPETTO PER LE SALE D’ASPETTO. IN ITALIA LE STANNO CHIUDENDO TUTTE. ORA CI SONO LOUNGE PER SOLI VIP. E GLI ALTRI? STANNO AL FRESCO

Il detenuto è in attesa di giudizio. In sala d’attesa. Non avendo alcuna fretta, e ben sapendo che la giustizia porta più ritardo d’un intercity, il signor Carmelo G. è uno degli ultimi privilegiati che in una waiting room (come fa più moderno chiamarle adesso) potrebbe andarci quando, quanto, come vuole. Potrebbe abitarci, perfino. Quarantacinque anni d’età e venti di furti, qualche mese fa Carmelo G. è comparso davanti a un giudice di Milano. E poiché di notte le carceri sono strapiene e le stazioni stravuote, quando s’è trattato d’indicare dove avrebbe trascorso l’ennesimo periodo di soggiorno obbligato – unica condizione: un luogo dove non potesse rubare alcunché –, non ha dubitato un secondo: la sala viaggiatori di Greco-Pirelli. Tutte le sere, ha spergiurato un attimo prima d’evadere, il commissariato di zona l’avrebbe trovato lì: «State tranquilli, in quel posto non ci lavoro proprio…». E perché mai? «Perché dopo le otto di sera chiudono. E non c’è più nessuno».
O atrio, o saletta Vip. O il freddo gratis o il caldo a pagamento. Clienti, non più viaggiatori, ci hanno sbattuti fuori tutti quanti. Credevate, con Cavour, che la civilizzazione cominciasse dalla stazione? Non c’è più rispetto per le sale d’aspetto: le stanno chiudendo dappertutto, 940 in due anni. Niente prima, seconda o terza classe. Solo le lounge dai divanetti ergonomici. Altrimenti, bivacchi all’addiaccio. Milano Centrale è lo sfratto più ruvido: dov’erano le democratiche panchine che trent’anni fa ospitavano e depredavano il Renato Pozzetto di Un povero ricco, con Piero Mazzarella che gli tagliava il cappotto e gli fregava le scarpe, ora hanno messo i Freccia Club e le hostess tacco dodici che ti fanno entrare solo se hai il biglietto-executive-la-Carta-Freccia-la-Carta-Oro-la-Carta-Platino-l’-AvSalottino-il-Carnet-200-euro, oppure ti propongono proprio di fianco il bar e le House Grill a consumazione obbligatoria o se proprio vuoi stare al caldo, gratis, un bel giro nelle boutique e alla Feltrinelli che ha sei poltroncine e otto sedie per fingere di compulsare libri, attendendo il treno…
Si sta fuori, sennò. Nell’atrio. Donne, vecchi e bambini a temperatura ambiente, spesso inclemente. Hanno piazzato 462 sgabelli d’acciaio che saranno anche duri e stretti e gelidi ma, garantisce Grandi Stazioni, seguono il modello Grand Central di New York – magari un po’ meno Grand – e sono «nell’ottica della seduta diffusa del modello europeo», anche se la “seduta diffusa” di Parigi e Londra è al coperto. In America si sono inventati le salette per cani&gatti, con toelettatura e veterinari? Da noi, carri bestiame e tosature di bilancio.

Le eccezioni che resistono. È senza ripensamenti, la grande dismissione che nell’ultimo ventennio ha fatto a meno dei ferrovieri, dei magazzinieri e ora trasforma i passeggeri: via le sale di Napoli Centrale (c’è una vetrina di camicie), di Firenze Santa Maria Novella (uno showroom), di Venezia Santa Lucia (47 negozi), di Brescia, di Torino, di Genova, di Bari, di Verona e di tutte le grandi e piccole capitali turistiche dove una volta gli stranieri afflitti dai ritardi, almeno, venivano consolati sotto un tetto. Chi la fa l’aspetti, e chi aspetta non la fa: pure i bagni, qua e là, sono spariti o a pagamento.
Ancora per poco e sempre meno, sopravvivono 850 sale, quasi nessuna nelle grandi città. Il tamtam va su TripAdvisor: ne hanno scorta una a Roma Termini! Qualcuna in Alto Adige! Ce n’è a Teramo e anche a Cremona! A Bologna non potevano toglierla, perché fa da memoriale della strage. Ad Abbadia Lariana, un writer l’ha affrescata e salvata dalla scure. A Torino Porta Nuova, la meravigliosa prima classe stile Savoia e coi dipinti del Gonin, mobili intarsiati e lampadari di Murano, resiste come museo pur essendo da un bel po’ chiusa al pubblico, turisti compresi.

Un mondo a perdere. Non è una questione di spazio: dentro Milano Centrale, se n’è trovato per lo sportello d’ascolto e per la scuola d’italiano agl’immigrati, per il gruppo Avis e per la cappella, senza dire che ci sono centinaia di metri d’uffici mezzi vuoti, su quattro piani. La scelta di creare un popolo di senzasala nasce per combattere i senzatetto. «Chi non ha casa e non ha letto/ si rifugia in sala d’aspetto», recitavamo già negli Anni 60 con Gianni Rodari: «Di una panca si contenta/ tra due fagotti s’addormenta./ Controllore non lo svegliare/ ancora un poco lascialo sognare…». Un luogo per disadattati, certo. Ma pure per adattarsi agl’imprevisti dell’attesa: gli arabi hanno inventato una parola, hakawati, l’affabulatore, per descrivere gl’insostituibili conversatori delle sale d’aspetto, quei molesti chiacchieroni da viaggio che Sciascia intercettava ne Il mare color del vino e ce ne fossero oggi, a distogliere gli sguardi fissi dagl’iPad. Un mondo a perdere: Cesare Pavese, insegnante al ginnasio di Vercelli, s’immergeva talmente nella lettura (d’un libro, non d’uno smartphone) da non accorgersi del treno per Torino e, senza i soldi per l’albergo, s’arrangiava a pernottare su una panca della sala d’attesa, oggi ovviamente smantellata.
Tanta letteratura nostalgica non scalda i portavoce delle Ferrovie: «Le sale d’attesa erano diventate soprattutto luoghi di bivacco. La mattina, i viaggiatori le trovavano in uno stato pietoso. Le stazioni sono da sempre l’approdo sicuro di chi non sa dove andare e infatti c’è un nostro progetto onlus, Help Center, che cerca d’occuparsene. Ma i costi di pulizia e disinfestazione straordinaria, 85 milioni l’anno, erano ormai insostenibili». Altro che Pavese o Pozzetto, dicono: «Non c’è nulla di romantico, il vandalismo è un nemico. Qui non è la Germania o la Svizzera: appena rifacciamo una toilette, dopo due giorni è già sfasciata e piena di scritte».
In alcune stazioni dell’Abruzzo, s’è ricorsi ai vigilantes. In altre, come Milano Greco, alla chiusura solo di notte. Ma la tendenza è il lucchetto: «È cambiato il concetto tradizionale della sala, come luogo chiuso e dedicato, perché è mutato il modo di viaggiare e si sono ridotti i tempi d’attesa. Lo smantellamento riguarda soprattutto le grandi città: dove esistono servizi pubblici e metropolitane, una pensilina con le poltroncine è sufficiente. Anche nelle stazioni con meno di 500 viaggiatori al giorno, è una spesa inutile. Comprendiamo il rimpianto delle vecchie sale: se la collettività ci tenesse davvero, però, le devasterebbe meno. Noi avevamo proposto ai Comuni di prendersi in carico questi spazi, ma nessuno ha i soldi: su 2.500 sindaci, hanno risposto solo in 400. Gli altri protestano, ma li stiamo ancora aspettando».
En attendant, solo posti fuori. E fiori, una prece al binario morto d’una certa memoria ferroviaria. Il treno e non l’aereo ha fatto l’Italia, riassume Paolo Rumiz, che alla seconda classe ha dedicato un libro reportage. È dai primi vagoni che s’è distribuito il chinino per curare la malaria. Ed è sul ponte di Boffalora che si sono uniti i lombardi ai piemontesi, col Gottardo e la Porrettana che tagliarono Alpi e Appennini. Le rotaie hanno industrializzato il Paese, prima che ci trasformassimo in un popolo di gommonauti, e ne hanno fotografato le epoche, le epiche: le rivolte operaie ai caselli e i raccomandati col posto fisso, i pendolari del mattino e le famiglie in riviera, il sarchiapone e gli abusivi del caffè alla Nino Manfredi…
Se la nostra è una storia sub specie ferroviaria, la Vicevita di Valerio Magrelli, allora l’abolizione delle sale d’aspetto è la metafora d’un Paese d’aspetto malconcio che pure s’è abituato ad aspettare qualunque cosa, un certificato come un processo, ed è condannato a non aspettarsi mai niente, men che meno una locomotiva della ripresa.

Lo smantellamento è iniziato dal Sud. «In regioni come la Sicilia hanno cominciato a chiudere tutto già nel 2005», spiega Giosuè Malaponti, che ha guidato molte battaglie del comitato pendolari Messina-Catania-Siracusa: «I bagni, li hanno sigillati all’inizio delle stagioni turistiche. Appendendo i comunicati solo in italiano. Dicono che questa rivoluzione degli spazi porterà benefici? A Catania, il progetto è già fallito: l’affitto chiesto ai commercianti, per occupare le vecchie sale d’aspetto, è esagerato. E il risultato è che il caffè se lo vanno tutti a bere fuori. A Palermo, il cantiere è aperto da una vita. A Siracusa, idem. A Noto, capitale del barocco, non c’è nemmeno più la stazioncina turistica».
Dove i comitati di protesta si son fatti sentire, sarà l’effetto del grillismo, qualche taglio s’è evitato: in Lombardia, in Friuli, in Liguria. «Ma al Sud è una tragedia», dice Malaponti: «Da molte parti, hanno tolto pure i bagni. Ragioni igieniche, dicono. Ma io voglio vedere che ne è dell’igiene, se mille pendolari decidono tutt’insieme di fare i bisogni sulle rotaie…». Ansimando fuggìa la vaporiera, cantava il Carducci, aprendo le braccia al progresso: passasse la proposta Malaponti, chissà, ansimando aprirebbero anche la Vip Lounge.