Elisabetta Rosaspina, Corriere della Sera 22/03/2013, 22 marzo 2013
«L’AVVENTURA CON ANDREA, MIO FIGLIO DOWN» —
«Se dovessi scegliere con chi fare il giro del mondo, non avrei esitazioni: con lui». Con Andrea, con suo figlio. Molti padri direbbero la stessa cosa, probabilmente. Ma non tutti si divertirebbero quanto Stefano Mauri, l’editore milanese. Assieme ad Andrea, in giro per mare e per monti, ma preferibilmente per mare. Perché pochi ventenni sanno essere sempre di buon umore e di compagnia, come lui, soprattutto a bordo di una nave. Perché tra i problemi di Andrea non c’è la sindrome dell’età ingrata. Né un grammo di snobismo. Perché Andrea sa fare amicizia con tutti e si trova a suo agio con il petroliere come con il benzinaio: semplicemente non vede la differenza, e questa è una delle sue migliori qualità.
«Attacca bottone con chiunque. Sa sempre come rompere il ghiaccio e sul cazzeggio è imbattibile. In qualche caso è addirittura consigliabile avere un figlio Down» riflette Stefano Mauri, 51 anni, presidente del gruppo editoriale Mauri Spagnol (GeMS), e consapevole — lui — che in tal caso sarebbe però preferibile essere un petroliere che un benzinaio.
«Certo, per chi ha mezzi, tutto diventa più facile — riconosce —: le scuole private, gli insegnanti di sostegno. Ma da quando è arrivato lui, da quando è cominciata a emergere la sua personalità, è iniziata un’avventura. Tutta diversa da quella prevista».
Non è stato subito così, naturalmente. «La sua nascita è stata uno choc». Ma vent’anni dopo è il ricordo di quella sensazione, simile a un lutto, a sconcertarlo: «Ci si sente come se il bambino fosse morto, invece di essere nato — analizza Stefano Mauri —. E in effetti è morto il bimbo immaginario che si era atteso per nove mesi. Il bambino normale. Gli amici quasi ci facevano le condoglianze. Tranne due cugini che avevano studiato alla scuola media dell’Istituto dei Ciechi di Milano, una delle scuole che favorisce maggiormente l’integrazione dei disabili. Loro, quando l’hanno saputo, ci hanno detto: embé? Avevamo amici così nella nostra classe».
Che il mondo dedichi dunque una giornata all’anno alla Sindrome di Down sembra una buona idea al papà di Andrea: «Perché è l’occasione per occuparsene e per diffondere un po’ di cultura sulla questione. Tre persone su quattro sono ben disposte, ma la quarta è schiva quando incontra una persona Down, perché non sa come comportarsi».
Ecco un altro problema che Andrea non ha. «Sua madre e io siamo molto contenti che lui sia molto sicuro di sé nelle situazioni sociali. Andrea cade sempre in piedi e ha un’attenzione per il prossimo superiore alla media. Da lui non ci si può aspettare cattiverie».
E dal futuro? «Sì, Andrea sta frequentando la quinta liceo artistico e adesso verrà il difficile: trovargli un’occupazione — non si abbatte comunque Stefano Mauri —. Lui vorrebbe diventare una rockstar, ma io conosco un ragazzo che ha aperto un bar e penso che per Andrea sarebbe un’esperienza lavorativa adatta, perché è bravo, simpatico e socievole».
In film come Johnny Stecchino, L’ottavo giorno, o lo spagnolo Yo tambien, diventerebbe sicuramente, alla fine, un barman di successo, ma la realtà è meno edulcorata del cinema e ci sono piccole vittorie quotidiane che contano quasi di più: «Uno dei suoi giorni più felici è stato quando ha imparato a nuotare — ricorda suo padre —. Un po’ più tardi degli altri, magari, però ciò che apprende non lo scorda più. Va e torna da scuola da solo, cambiando linea metropolitana. E se qualcosa lo interessa, come trovare una canzone in Internet, diventa geniale come Houdini».
Vero, i suoi coetanei hanno gli amici del cuore, si telefonano in continuazione ed escono, però raramente sono entusiasti della vita come Andrea: «Si sveglia prestissimo, al primo barlume di luce, con la felicità di iniziare una nuova giornata. Bambini come Andrea tengono unita la famiglia. Il suo sogno è di vivere tutti insieme in una specie di kibbutz. Quando è nato, i medici italiani ci dicevano come dovevamo curarlo, senza nemmeno averlo visitato. Andrea non è malato e non va trattato come tale. Ai genitori dei bimbi Down basta insegnare come amarli».
Elisabetta Rosaspina