Marzio Breda, Corriere della Sera 22/03/2013, 22 marzo 2013
LA STRADA DEL MANDATO «CONDIZIONATO» —
Lo stallo è continuato fino a sera. La strada per risolvere il rebus del dopo voto da stretta, anzi, strettissima, sembrava diventata un vicolo cieco. Eppure Pierluigi Bersani non si rassegnava e non si rassegna: è pronto a combattere fino in fondo e rivendica il diritto di imboccarlo, quel sentiero. Per quanto impervio e buio possa essere. Attraverso un richiamo alla corresponsabilità, vuole provare a mettere in piedi il suo «governo di cambiamento». Insomma: è determinato ad aprire la sfida (sul proprio progetto, il proprio programma, i propri nomi) a «tutte le forze parlamentari», a costo di farsi dire pubblicamente di no e di non raggiungere così l’autosufficienza di cui avrebbe bisogno in Senato. E in ogni caso senza digerire l’idea di un passo indietro per carità di patria.
Ecco l’aggrovigliato nodo che ieri sera Giorgio Napolitano si è trovato a sciogliere, al termine di due giorni di consultazioni, facendo ricorso a tutta la sua esperienza politica e istituzionale. È difficile, per lui, non concedere al segretario del Partito democratico questa chance, attraverso un incarico. Difficile, per non dire impossibile, anche se sa bene — e lo sa Bersani — che un simile tentativo è esposto al rischio del fallimento e potrebbe dunque rivelarsi un azzardo, oltre che una perdita di tempo. Tuttavia il presidente della Repubblica un tale passo lo deve fare, in forza del responso delle urne, in base al quale il Pd può vantare la vittoria, seppur mutilata.
Ora, a parte lo scatto d’orgoglio politico e personale del candidato premier, a parte il suo bisogno di tenere unita una dirigenza in tensione e sotto stress, a parte il vago sapore pre elettorale che questa mossa si porta dietro, ciò su cui ci si è interrogati a lungo era la natura del mandato. Che, si può anticipare, non sarà pieno. Qualcuno azzardava che potrebbe essere «esplorativo», così che Bersani in persona verificasse se è in grado di ottenere i numeri dei quali ha bisogno: ma gli «esploratori» sono di solito figure terze, quasi sempre alte cariche dello Stato, e tale scelta non si applica mai a chi deve poi mettere in piedi il governo. Sarà quindi, comunque il Quirinale decida di qualificarlo (e la definizione risulterà dagli stessi contenuti con cui il presidente lo configurerà), un mandato «condizionato», e in un passaggio come il nostro la condizione regina è ovviamente che ci sia una maggioranza per la fiducia.
Sarà questo il primo, e provvisorio, giro di boa del consulto quirinalizio. Napolitano lo formalizzerà nel pomeriggio di oggi, dopo aver completato in solitudine le sue riflessioni e tratto un bilancio dal faticoso confronto che ha avuto con tutti gli attori in campo. Il primo dato sensibile raccolto è che esiste una larga maggioranza che, nonostante le minacce incrociate dei giorni scorsi, non vuole tornare al voto: risultato scontatissimo, se non altro per l’istinto di autoconservazione che percorre un Parlamento appena insediato. Ha poi dovuto affrontare l’atteso faccia a faccia con il leader del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo (e c’è stata molta curiosità reciproca e qualche ironia sdrammatizzante), dopo il quale ha dovuto verbalizzare quel che in rete era stato già ripetuto infinite volte dal blogger: nessuna stampella al Pd, nessuna foglia di fico, nessuna fiducia a governi dei vecchi partiti. A parte il copione già recitato del centrodestra berlusconiano, l’autentico scoglio da aggirare era l’incontro delle 18 con Bersani. Dal Pd erano stati fatti filtrare segnali duri e preoccupanti anche per il Quirinale. Dall’entourage del vertice si continuava a bocciare qualsiasi scenario di larghe intese con il Pdl. Un arroccamento fondato su un vero ukase: se si insiste per un accordo con Berlusconi, si deve capire che, a parte una quarantina di renziani e una decina di veltroniani, gli altri 290 parlamentari del partito si schiereranno compatti contro. E non resterà altro che il voto.
Una pressione finalizzata a scoraggiare Napolitano e chiunque coltivi l’ipotesi di un esecutivo «del presidente», «istituzionale», «di scopo», o comunque lo si chiami (ipotesi sposata dal centrodestra nel tentativo di rimettersi in gioco), e sulla quale si erano sprecati gli identikit del possibile premier. Da stasera toccherà a Bersani, provare a far uscire il Paese dall’impasse. Non avrà molto tempo: due o tre giorni al massimo. Dopo di che, se tornerà sul Colle senza dimostrare — carta alla mano — di essersi guadagnato l’autosufficienza, l’ultima mossa sarà del capo dello Stato. E, contro ogni obliqua minaccia, c’è da giurare che un impensabile deus ex machina per un suo governo lui lo scoverà.
Marzio Breda