Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa 22/3/2013, 22 marzo 2013
ACQUA, CHE PARADOSSO
A quasi due anni dal referendum, l’acqua resta una metafora dei paradossi italiani, su diversi piani: ambientale, sanitario, politico, sociale. Il primo: nonostante siamo tra i Paesi più ricchi di acqua (2800 metri cubi l’anno per abitante), soffriamo di scarsità. Non solo in estate, non solo al Sud.
Un italiano su dieci denuncia irregolarità nella fornitura di acqua potabile (la situazione più grave in Calabria, dove si arriva al 32 per cento); uno su sei non dispone di sistema fognario, uno su tre di depuratore. Secondo il Wwf, abbiamo una «impronta idrica tra le più elevate al mondo». Le perdite di rete superano il 30 per cento (record europeo), lo spreco (consumo civile due volte e mezzo quello tedesco, tecniche di irrigazione con tassi di inefficienza del 30 per cento) incide sulla qualità, impedendo la diluizione degli inquinanti. Risultato: una famiglia su tre non si fida dell’acqua del rubinetto, in Sicilia il 60 per cento.
Il secondo: a dispetto dell’abbondanza idrica, siamo il primo Paese in Europa e il terzo nel mondo dietro Arabia Saudita e Messico per consumo di acqua minerale: sei miliardi di bottiglie di plastica l’anno, in media una spesa di 240 euro a famiglia (più di quella per la famigerata Imu sulla prima casa).
Secondo il più recente dossier Altraeconomia-Legambiente, nonostante la crisi la spesa degli italiani per la minerale cresce, in un settore in cui il prezzo dell’acqua - dalla fonte al supermercato - si moltiplica per duecento volte, «con un elevato impatto ambientale - rifiuti, trasporti inquinanti - e canoni di concessione irrisori» per gli enti locali.
Il terzo: le leggi nazionali sulla qualità dell’acqua sono tra le più avanzate, ma anche tra le più inapplicate: il 31 dicembre 2012 è scaduta una decennale deroga concessa dall’Unione europea sui limiti di sostanze come il cancerogeno arsenico e trecentomila cittadini laziali sono stati lasciati senza acqua potabile. Il quarto: nonostante 27 milioni di italiani abbiano scelto un governo pubblico dell’acqua come «bene comune», mai come nel periodo successivo al referendum si sono moltiplicati, a diversi livelli istituzionali e con consensi politici trasversali, gli attacchi a questo principio. Con due distinti provvedimenti, sia il governo Berlusconi che il governo Monti hanno sancito la gestione privata dei servizi pubblici locali: è dovuta intervenire la Corte costituzionale per difendere l’esito del referendum. Stessa musica per la tariffa: il voto popolare obbligava a decurtarla del margine di profitto del 7 per cento, ma i gestori non l’hanno fatto e l’Authority ha introdotto una nuova voce, «oneri finanziari», che è parente stretta di quella abolita. Il Forum dell’acqua pubblica promotore del referendum, che riunisce centinaia di comitati in tutta Italia con migliaia di attivisti, ha promosso un ricorso al Tar, lanciando anche un’inedita campagna di «obbedienza civile»: il cittadino viene assistito nel ricalcolo della tariffa, pagando il giusto. Ad Aprilia, dove cinquemila persone l’hanno fatto, il gestore privato ha mobilitato i vigilantes per dissuaderli.
Infine, paradosso nel paradosso, il Forum dopo il referendum ha chiesto di interloquire con i partiti, affrettatisi a intestarsi la vittoria e a cavalcarla a colpi di slogan. Ma ha avuto udienza a dir poco scarsa: Bersani non ha mai risposto alla richiesta di appuntamento, Grillo l’ha fatto saltare all’ultimo momento.
Eppure, qualcosa sta cambiando. Il tentativo più interessante di applicare il referendum trasformandolo in un processo politico e sociale è in corso a Napoli. Nel 2011 il sindaco Luigi De Magistris ha chiamato i due giuristi che avevano scritto i quesiti referendari: Alberto Lucarelli assessore ai Beni comuni, Ugo Mattei al vertice dell’azienda dell’acqua Arin, con un milione di clienti. Spiega Mattei: «La Spa comunale produceva sprechi pazzeschi con una struttura verticistica e autoreferenziale: moltiplicazione di poltrone e stipendi, zero trasparenza, investimenti bloccati a danno degli utenti, appalti opachi e dispersi in diverse aziende controllate». Il direttore generale guadagnava 400 mila euro (più di Draghi alla Bce), i manager godevano di luculliane spese di rappresentanza, gli 11 direttori di auto e telepass gratis più rimborsi benzina per 25 mila chilometri annui.
Ora la Arin è stata trasformata - primo caso in Italia - in azienda pubblica: Abc, Acqua Bene Comune. «La Spa aveva come scopo il profitto e come modello di controllo il mercato, ora l’azienda ha il governo ecologico e sociale dell’acqua, anche nell’interesse delle generazioni future». La novità è il comitato di controllo, un parlamentino con 5 rappresentanti dei 400 dipendenti (ieri la prima elezione, ha votato il 97 per cento), 5 consiglieri comunali, 5 rappresentanti degli utenti, 5 esperti del mondo ambientalista. Piacenza, Reggio Emilia, Belluno, Vicenza, Palermo, Torino stanno provando a seguire Napoli.
«Un genere diverso sia dalla vecchia proprietà pubblica che da quella privata - dice Mattei - un modello nuovo che però avrebbe bisogno di una legge per poter funzionare al meglio».