Filippo Ceccarelli, la Repubblica 22/3/2013, 22 marzo 2013
BEPPE, IL FANTASMA CON LA CRAVATTA
IL SOSPIRONE di Bersani, stravolto dalla tensione. La stanchezza e la civiltà del vecchio Napolitano, cui dispiace di cuore negare la sicurezza, la speranza. Il brusio dei giornalisti accalcati sui gradoni, 25 telecamere fisse, una cinquantina di macchine fotografiche, il ronzio dei flash, il carosello impazzito delle ipotesi e delle controipotesi a sfondo para-costituzionale. Gli occhi bassi di Berlusconi, che non ha più voglia neppure di fare lo spiritoso. La crisi si accartoccia su se stessa. Ma non è crisi di governo, come innumerevoli ce ne sono state: è crisi di sistema.
Roma al mattino di una bellezza struggente, ma il vento della primavera resta fuori dal Quirinale. La piazza sequestrata da un cordone di agenti e carabinieri. Staffilate di sole sul palazzo, cielo blu, bandiere come bagliori che vibrano. Ma è una delle peggiori giornate della storia repubblicana, si misura oggi il disastro delle elezioni del mese scorso. La frase suona brutale nella sua ineleganza, ma davvero le chiacchiere stanno a zero, nessuno è in grado di immaginare cosa accadrà domani, tutto va accelerando e insieme consumandosi come uno smottamento, un cataclisma, un cupio dissolvi troppo a lungo preannunciato.
Il presidente della Repubblica si curva lento sui microfoni e assicura: «Devo riordinare gli appunti e le idee». Gli pesano addosso scelte impossibili. Ma il sospetto è che l’antico tormentone del Grande Buffone, il grido esasperato del castigo televisivo di dio, dell’odierno agente di deflagrazione dei partiti residui e delle istituzioni senza cuore, si sia fatto realtà: «E’ una cosa pazzesca!». Ma ancora più pazzesca, a pensarci un po’, è l’invisibilità di Grillo, appunto, l’energia dell’assenza, la potenza scenica del vuoto, che poi è una specie di nascondino. Per cui prima parla con il Capo dello Stato e poi, ben lieto di lasciare a bocca asciutta torme di operatori dell’informazione, aspetta dietro la porta ed esce finalmente insieme a quei due suoi poveri supplenti dati in pasto al pubblico, anch’essi giustamente nervosi, preoccupati.
E infine si fa la foto ricordo con loro sotto il magnifico torrino, una specie di rituale di conquista, una presa di possesso nel tempo dell’immagine e delle visioni a distanza. Ha un cappotto troppo grosso, una cravatta improbabile. Poco prima l’autista tuttofare con la coda di cavallo, quello che progettava «ecofeudi» e resort in Centroamerica con uso di bunker, si è guardato attorno e si è acceso una svampa, anche lui con l’aria di chi mai avrebbe immaginato di trovarsi lì, con il monovolume o Suv che sia.
A sera, battuti otto tocchi di campana, è buio e deserto il cortile d’onore della reggia dei papi, dei re e dei presidenti. Ancora un’altra giornata si è persa appresso alle vicende più strambe e drammatiche senza nemmeno sfiorarle. Il salvacondotto giudiziario per il Cavaliere, che forse ha fatto anticamera e dietro la tribunetta lancia un pensiero nientemeno che ad Antonio Tajani. I piani A e B e forse anche C e D che con ordinaria febbre moltiplicatoria si attribuiscono a Bersani, il presunto vincitore alla fine soccombente; il quale Bersani, tra l’affranto e l’accigliato «si pone al servizio» e al tempo stesso emette parole che difficilmente faranno breccia, l’economia verde, la Camera delle Autonomie, la «singolare via di Damasco», per «traguardare», eh, buona notte.
Il caos trascende ormai le volontà individuali, nessuno è più colpevole né innocente, la politica ha fatto tilt. Osservate dal vivo, le delegazioni offrono un’immagine estenuata, sono quadretti più cupi che sul video; non è facile né invitante mettersi nei loro panni, ma se ci si riesce anche solo per un attimo, si è colti da un imprevedibile sentimento di pena e sgomento. Ai leader fanno da corona i capigruppo e il loro mutismo accentua l’aspetto mimico e teatrale di questa cerimonia di un potere che s’è irrimediabilmente perso e non si ritrova più.
I due corazzieri con l’elmo quasi sugli occhi, i falsi allarmi, il sipario di legno che finalmente si apre, l’arazzo con i due angioletti che si fanno le tenerezze e in realtà coprono una finestrona dietro cui i potenti si preparano ad affrontare gli sguardi elettronici, i raggi della grande lente che piano piano li ha abbrustoliti. Ma stavolta non sono consultazioni come tutte le altre. Nel grande e lungo salone dei giornalisti si sta tra Helter Skelter, l’ottovolante incasinatissimo dei Beatles, ed Helzapoppin, la confusione degli equivoci che giocano ad acchiapparella, o forse a mosca cieca. Con temeraria approssimazione si arriva a pensare che Grillo, al di là della sua stessa persona, violando i limiti della razionalità politica e la geometria dei suoi rituali ha definitivamente sparpagliato l’ordine degli archetipi - e non c’è mandato esplorativo o incarico pieno, ma neanche governo o governissimo che possano riallinearli.
E siccome l’Italia è l’Italia, a un certo punto la giornata è riuscita a prendere una piega addirittura mitologica, per cui sull’altare dei sacrifici umani è salito Morfeo, figlio di Ipnos e della Notte, raffigurato con ali di farfalla, cornucopia di frutta e sintomatica corona di papaveri. Un dio massimamente frainteso, non del sonno, come fa comodo all’umorismo grilloide, ma del sogno, anzi sogno egli stesso, sogno disperato e selvaggio, sogno da cui a fatica, prima o poi, ci si dovrà pur svegliare.