Candida Morvillo, IoDonna 16/3/2013, 16 marzo 2013
LA LEGGE CI ASSEGNA LE POLTRONE MA POI STA A NOI DIFENDERLE PER MERITO
Tra le big della finanza mondiale c’è molta curiosità verso ciò che accadrà in Italia da qui a fine aprile, quando la Legge sulle quote di genere dispiegherà i suoi primi effetti fino a portare – nel 2015, stima della Consob – circa 1.300 donne nei Consigli delle società quotate in Borsa e di quelle partecipate dalla Pubblica Amministrazione. Alla fine, le italiane nei posti chiave saranno il 30 per cento, contro l’attuale 15,8 europeo e 16,6 americano. «Fino ai primi del 2012 eravamo al sei per cento; ora, la norma sulle quote rosa sta mettendo pressione anche in Paesi che si affidano di più all’autoregolamentazione» racconta Marina Brogi, che con Cristina Finocchi Mahne è co-presidente del capitolo italiano di Women Corporate Directors, think tank internazionale sulla governance nei Cda di cui è presidente l’americana Susan Stautberg, Ceo del colosso Partner-Com Corporation.
«Il primo incontro con Susan è stato a cena a New York, ad agosto. C’erano Myra Hart, professore a Harvard e consigliere di Kraft, una delle 500 donne più influenti del mondo secondo Fortune, Nike Akande, ex ministro dell’Industria in Nigeria, e altre donne di assoluto peso» continua Brogi, che la mattina dopo è diventata uno dei due membri europei della Global Nominating Commission, task force di Wcd, il cui scopo è favorire maggiore diversità nei consigli di amministrazione e nelle relative liste di candidati.
È sbagliato immaginare una lobby di donne a caccia di rivincite. Dopo due ore di conversazione con Brogi e Finocchi Mahne, le annose discussioni su differenze fra maschi e femmine e tetti di vetro che impediscono alle donne di scalare il potere sembrano appartenere a un’epoca fa. «Ai nostri incontri si parla di governance e non certo di questioni di genere» raccontano. Più che prendere il potere, il tema è come gestire le nuove responsabilità. «Globalizzazione e crisi economica impongono nuove competenze» osserva Finocchi Mahne. «Oggi serve una conoscenza più profonda del business e dei mercati finanziari. Spesso le aziende italiane vengono da un capitalismo familiare e con la crisi del credito bancario è sempre più frequente l’esigenza di finanziarsi ricorrendo a mercati e investitori istituzionali, mettendosi in concorrenza con aziende di altri Paesi e altri settori». «Nei nostri incontri, c’è il desiderio di approfondire e condividere le best practice» spiega Brogi.
Wcd Italia raccoglie già donne presenti in società che costituiscono il 25 per cento della capitalizzazione della nostra Borsa, oltre a figure istituzionali come il presidente Rai Anna Maria Tarantola o il presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro e il ministro del Lavoro uscente Elsa Fornero. Al loro ultimo incontro, i temi erano due: le competenze da rafforzare nei Cda e le priorità della governance in questa congiuntura.
Cristina Finocchi Mahne, 47 anni, già senior executive in banche quotate, è docente di Advanced Business Administration alla Sapienza di Roma ed è nel Cda della società di consulenza quotata Pms Group. Marina Brogi, 45, è vicepreside della Facoltà di Economia e professore ordinario di Economia dei Mercati Finanziari alla Sapienza, è consigliere di A2A, Banco Desio, Impregilo e Prelios. Entrambe sono sposate, Marina ha due figli, «magnifici» assicura: «Sono i miei più grandi tifosi». Le due professoresse ridono quando chiedi se nei vari consigli si sentano dei panda. Lì conta solo quello che dici, spiegano. «Anche se» aggiunge Cristina «ho un aneddoto “inverso”. Ho dato una cena per Rita El Khayat, la psichiatra marocchina che è stata candidata al Nobel per la Pace ed è una delle maggiori intellettuali del Medio Oriente. C’era un solo uomo e mi ha detto: “Sento il peso della responsabilità della categoria. Stasera per quello che dirò non verrò giudicato solo io, ma tutto il genere maschile”. Ecco, forse a volte, a noi donne capita lo stesso nei contesti di vertice». Chissà che cosa succederà da qui a poco? Le chiameremo consiglieri o consigliere? Manca persino la parola. Eppure, saranno tante. La Legge 120/2011 prevede l’obbligo di nominare almeno un quinto di “persone del genere meno rappresentato” entro la prossima campagna assembleare, che scade a fine aprile, e almeno un terzo entro il 2015. A primavera, potremmo avere 5 donne in Ubi banca, 4 in Intesa SanPaolo, 3 in Generali, 2 in Snam e la rivoluzione rotolerà giù fino alle aziende municipalizzate. L’obbligo vale per tre mandati, dopo ognuno farà come gli pare. La speranza è che le consigliere sappiano farsi valere.
Secondo molti studi, un Fattore Donna esiste. Il Rapporto 2011 di Bankitalia rileva che più sono le donne fra gli amministratori pubblici minore è il livello di corruzione e che le imprese individuali femminili ripagano meglio il debito verso le banche. Dunque: più prudenti e più oneste. È celebre la battuta del presidente del Fondo Monetario Christine Lagarde: «Se Lehman Brothers si fosse chiamata Lehman Sisters, forse non sarebbe fallita».
«Nei consigli, la diversità di competenze, visione, esperienze, e quindi anche di età e di genere, può solo produrre un miglioramento» spiega Finocchi. L’ondata rosa, però, fa paura. Il commissario Consob Luca Enriques ha ipotizzato che molti potrebbero ridurre il numero dei consiglieri per evitare che entrino troppe donne e trasformare i mandati triennali in annuali, per ridurre l’impatto della norma che copre tre giri di nomine. C’è poi chi sostiene che l’Italia non ha abbastanza donne pronte per i Cda, ma la Fondazione Bellisario ha raccolto 2.500 curricula certificati. Alla scadenza della legge, una cosa sarà cambiata, riflettono Cristina e Marina: le giovani potranno avere più modelli di “donne che ce l’hanno fatta”. A rompere il noto tetto di vetro, ovvio.