Luca Piana e Gloria Riva, L’Espresso 22/3/2013, 22 marzo 2013
IN CINA SOLO PER 20 EURO
Era diventata un’abitudine del sabato pomeriggio. Prima di fare la spesa Paolo Mancini faceva un salto al reparto elettrodomestici in uno degli ipermercati che costellano la Brianza. Andava a vedere le lavatrici Candy che da vent’anni, con orgoglio e fatica, costruisce a Brugherio, l’ultima fabbrica sul suolo nazionale dell’azienda che nel 1946 iniziò a produrre la prima lavapanni made in Italy, la Modello 50.
Qualche settimana fa Mancini se ne stava lì con fare compiaciuto, drizzando le orecchie per carpire i commenti dei clienti. A un certo punto si è sentito come un padre che s’imbatte nel clone del figlio. Si è accorto che lo stampo posteriore di uno degli apparecchi esposti era diverso rispetto agli esemplari che escono da Brugherio. «All’inizio c’era solo quel particolare. Poi, con il tempo, sono comparsi modelli completamente differenti», racconta. Mancini non ci ha messo molto a capire l’origine di quelle lavatrici: «Vengono dallo stabilimento che l’azienda ha realizzato in Cina. Ci avevano assicurato che sarebbero finite solo sul mercato locale; invece ce le siamo trovate in casa», spiega. La verità è impressa sull’etichetta appiccicata sugli oblò: su quelle cinesi c’è la dicitura "Designed in Italy", sulle altre il più tradizionale "Made in Italy".
Le foto scattate alle lavatrici d’Oriente hanno permesso agli operai di fare alcune scoperte che interessano non solo chi lavora a Brugherio ma chiunque speri che l’industria metalmeccanica abbia ancora un futuro in Italia. Raccontano i sindacalisti di avere mostrato le foto al presidente Aldo Fumagalli, 53 anni, terza generazione della famiglia che da sempre controlla l’azienda, battezzata Candy nel dopoguerra su suggerimento dello zio Enzo, che aveva orecchiato quella parola ascoltando una canzone americana. Nel confronto che si è aperto, Fumagalli ha spiegato che non solo intende vendere in Europa - soprattutto nei mercati del Nord - tra 400 e 500 mila lavabiancheria l’anno prodotte nel nuovo stabilimento di Jiangmen, provincia cinese del Guangdong. Ma che sono intenzionati a proseguire in questa strategia nonostante il risparmio sia di soli 20 euro a lavatrice. «Se si considerano i costi industriali e il trasporto fino ai grandi scali del Nord Europa, produrre una lavatrice a Brugherio costa all’azienda 160 euro, a Jiangmen 140», riassume Stefano Bellaria della Fim-Cisl lombarda. La differenza agli occhi di un profano può apparire quasi irrisoria, considerando che si sta parlando di elettrodomestici di gamma elevata, capaci in negozio di costare 400 euro e più.
Possibile che dei lavoratori italiani rischino di perdere il posto per 20 euro? E possibile che il sistema Italia non sia in grado di fare nulla per limare uno svantaggio in apparenza così modesto? Per le tute blu della Candy, in effetti, la rivelazione è stata una mazzata. La loro non è un’azienda qualunque. Nello stabilimento di Brugherio, inaugurato nel 1961 dal fondatore Eden Fumagalli, il nonno di Aldo, sono state prodotte milioni di lavatrici che hanno conquistato le case degli italiani, dalla prima automatica alla rivoluzionaria "SA3" del 1964, con vasca ovale e filtro. Il gruppo, che conta oggi 935 milioni di euro di fatturato, non è mai rimasto seduto sugli allori. Ha acquistato diversi marchi – Hoover, Zerowatt, la russa Viatka, la cinese Jinling e la turca Doruk – ed è sempre stato molto attivo all’estero. Ne hanno pagato un prezzo salato anche i dipendenti italiani, visto che quattro impianti sono già stati chiusi, da Milano a Erba, da Bergamo a Lecco. Ma il ruolo di Brugherio, il cuore produttivo proprio a fianco del quartier generale, non è mai stato in dubbio.
Ora, invece, è fresco l’annuncio di 150 esuberi, un terzo degli addetti al montaggio, oltre alla previsione di scendere nel 2013 a 450 mila lavatrici assemblate (prima della crisi erano 700 mila). Un numero risicato, se si pensa che Jiangmen a regime arriverà a produrre 3 milioni di pezzi l’anno. Di qui le proteste dei lavoratori, i presidi davanti ai cancelli, i blocchi stradali. Reazioni infiammate dal timore che la storica fabbrica di Brugherio rischi di chiudere. «La Candy a delocalizzare ci ha preso gusto», paventa Claudio Cerri della Fiom-Cgil di Monza. I dipendenti hanno pure presentato una loro strategia di rilancio. Hanno chiesto di tornare a fornire dall’Italia una parte dei mercati del Nord Europa. E hanno messo sul piatto la disponibilità a intensificare la produzione, passando da 35 a 46 lavatrici l’ora grazie ad alcuni investimenti sulla catena di montaggio. Un’offerta che sarebbe piaciuta a Sergio Marchionne ma che la Candy ha respinto al mittente.
A ben vedere, quei 20 euro di differenziale a lavatrice fanno emergere una preoccupazione che non riguarda solo la Candy ma l’intera industria italiana del bianco. Per i grandi elettrodomestici l’Italia era una delle fabbriche del mondo, ancor più della Germania. La crisi ha stritolato un settore che fino a qualche anno fa dava lavoro a 400 mila persone, mentre oggi si ferma a 150 mila. Chiusure, delocalizzazioni nell’Est europeo e riorganizzazioni riguardano tutti i big, dalla Indesit alla Electrolux, dalla Whirlpool alla disastrata Antonio Merloni. A dispetto di queste difficoltà, tuttavia, importare lavatrici finite o grandi elettrodomestici dalla Cina resta un’eccezione. «Se avesse ragione la Candy e la via cinese fosse inderogabile, saremmo spacciati, visto che ancora oggi l’industria del bianco in Italia resta la seconda per numero di addetti, superata solo dall’automobile», dice Anna Trovò, segretario della Fim-Cisl nazionale.
A "l’Espresso" Aldo Fumagalli le sue ragioni le spiega così: dice che la richiesta di esuberi deriva in primo luogo dal tracollo dei mercati dell’area mediterranea, i più colpiti dalla recessione. «L’anno scorso in Cina si sono vendute 24 milioni di lavatrici, che saliranno a 30 nel 2016. Le previsioni per l’Europa dicono invece che il mercato nello stesso periodo rimarrà stagnante, attorno ai 21 milioni attuali», afferma. Ma c’è di più. Nella stessa Europa ci sono mercati dove le vendite continueranno a salire o quanto meno garantiranno una migliore tenuta, come i Paesi del Nord e la Russia. E altri, quali l’Italia, la Spagna e in genere quelli più a Sud, dove l’orizzonte è molto più buio. «Per noi far arrivare a Londra una lavatrice costa più o meno lo stesso sia che il punto di partenza sia Brugherio o Jiangmen. E quei 20 euro che risparmiamo in media costruendole in Cina non sono per niente una cifra irrisoria», sostiene. La spiegazione è nei bassi profitti che l’industria degli elettrodomestici garantisce, una volta spesati gli investimenti necessari per stare sul mercato. «I margini sono stati schiacciati dall’eccesso di capacità produttiva, dall’agguerrita concorrenza e dagli elevati investimenti», spiega Fumagalli. Il numero uno della Candy cerca di rassicurare gli operai: «Il mio ufficio è a 50 metri dalla linea di produzione, finché sarò presidente Brugherio non chiuderà. Il rapporto fra una fabbrica e il mercato che rifornisce è solido. Ma il punto è proprio quello: la situazione nell’Europa mediterranea è drammatica, non possiamo stare fermi». Domanda: esistono soluzioni che un governo potrebbe adottare per invertire la rotta? Risposta scettica: «Non vedo le condizioni. In tutta Europa il costo dell’energia è troppo elevato e il costo del lavoro pure».
L’allarme suscitato dal caso Candy riguarda dunque un intero pezzo dell’industria italiana. Al ministero dello Sviluppo economico, sul tavolo di Giampietro Castano, che sovrintende il dipartimento per le vertenze aziendali, i fascicoli aperti nel settore elettrodomestici sono 13. «Se vogliamo salvare la manifattura italiana occorre ridurre i costi di produzione. E bisogna farlo in fretta, per evitare di venire travolti da nuovi concorrenti come i coreani Samsung e Lg, che hanno compiuto forti investimenti», spiega Castano. Lui stesso, per individuare delle soluzioni, nel 2012 aveva convocato un tavolo con tutte le aziende del settore. Ma la discussione si è arenata con la fine del governo Monti. Gli obiettivi, dice Castano, sono diversi: riposizionamento di alcuni produttori, difesa delle competenze, della qualità e del design, collaborazione con le università per innovare. «La strada potrebbe essere quella di puntare a minori volumi produttivi, incrementando però la qualità e i margini di guadagno», sostiene. E poi c’è la questione del costo del lavoro, con le imposte che gonfiano gli oneri delle imprese e mortificano gli stipendi dei lavoratori.
La lezione, forse, può venire dalla Germania, dove produttori come Bosch e Miele hanno già superato il momento più duro, mantenendo il grosso della produzione in patria.
Enzo Savarino, segretario del sindacato Ig Metall a Singen, italo-argentino d’origine, racconta che mentre la Miele ha puntato sul crescente mercato del lusso, la Bosch ha avviato un percorso di diversificazione. «Il problema delle delocalizzazioni è meno sentito perché l’azienda deve discuterne nei consigli di amministrazione, dove siedono anche i sindacati. E spesso si utilizzano i piani sociali, cioè una serie di accordi che consentono di mantenere la produzione in loco, alleggerendo la fiscalità a carico dell’azienda», spiega Savarino. Più che spesare il costo degli esuberi e favorire la migrazione delle imprese all’estero, come avviene in Italia, gli aiuti pubblici servono così a sostenere l’innovazione e le riconversioni industriali.