Federica Bianchi, L’Espresso 22/3/2013, 22 marzo 2013
CARIOCA BOOM
Haroldo Castro, capelli bianchi su un corpo scurito dalle passeggiate rubate al lavoro sulla spiaggia di Ipanema, non ha dubbi: «Se il Brasile fosse oggi quello di cinque anni fa non sarei mai rientrato». L’ex manager dell’ong Conservation International che ha trascorso un decennio tra gli uffici di Washington, parla con orgoglio delle trasformazioni che sta vivendo il suo Paese: dalla riduzione della povertà e della violenza a una disoccupazione ai minimi storici, dalla crescita dei consumi interni all’incessante interesse degli investitori internazionali.
In meno di un decennio, passando dai 500 miliardi di dollari di prodotto interno lordo (Pil) nel 2004 ai 2.470 nel 2011, il Brasile si è trasformato nel nuovo leader dell’America del sud, sottraendo lo scettro all’Argentina. E ha dimostrato alle quattro economie mondiali in rapida ascesa, i cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), che migliorando le condizioni economiche di tutti è possibile anche ottenere una drastica riduzione delle disuguaglianze: negli ultimi anni i redditi delle classi brasiliane più povere sono cresciuti a tassi cinesi, quelli delle più ricche a tassi tedeschi.
Non che durante il recente percorso virtuoso per diventare la sesta maggiore economia mondiale e la seconda dell’emisfero occidentale (dopo gli Usa) il Brasile non abbia sofferto e non rischi di inciampare ancora. Dopo la caduta del Pil dello 0,2 per cento nel 2009, l’anno orribile della crisi finanziaria mondiale, l’economia si era ripresa brillantemente nel 2010 (+7,5 per cento) per poi diminuire il passo della crescita al 2,7 per cento nel 2011 e addirittura allo 0,9 l’anno scorso. Un duro colpo. «Il Brasile ha risentito molto del rallentamento dell’economia globale», spiega Andrea Goldstein, ex economista dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), autore del recente volume "L’economia del Brasile": «Continua a pesare la frenata della Cina, primo acquirente delle materie prime brasiliane. Ma adesso che l’implosione dell’Europa è stata scongiurata e che gli Stati Uniti hanno ripreso a correre, la situazione dovrebbe migliorare notevolmente». Il ministro delle finanze Claudio Mantega, un genovese naturalizzato brasiliano dopo gli studi di economia a San Paolo, prevede un tasso di crescita del 4,5 per cento per l’anno in corso. Il Fondo monetario internazionale, mostrandosi più cauto, si attende invece una crescita compresa tra il 3 e il 4 per cento. In ogni caso, l’umore dominante di investitori e analisti economici è decisamente positivo. «Rispetto agli altri Bric il Brasile è il Paese più completo», sottolinea Goldstein: «Ha immense risorse naturali, ma ha anche l’industria, i servizi, il turismo».
Proprio questi due ultimi settori hanno aiutato l’economia carioca nei momenti bui della crisi globale, creando nuovi posti di lavoro nonostante il Pil procedesse a passo di lumaca. Ora la disoccupazione (al 4,5 per cento) è la più bassa che il Paese abbia mai registrato. E sarebbe praticamente nulla se la manodopera locale fosse maggiormente istruita e qualificata (la qualità della scuola dell’obbligo è ancora una nota dolente nonostante sia in rapido miglioramento). Solo un mese fa la presidentessa Dilma Rousseff, dall’alto del suo 74 per cento dei consensi (un dato migliore di quando è stata eletta) ha dichiarato che in Brasile non esistono più «situazioni registrate di estrema povertà». Perfino in alcuni dei luoghi un tempo disperati si accendono televisori piatti mentre i brasiliani, desiderosi di un numero sempre maggiore di comodità, si lamentano del carovita. «Come faccio a vivere con mille euro al mese me lo devono spiegare questi economisti che celebrano la nuova classe media», si sfoga Chago, un piccolo imprenditore trentenne, residente nella favela di Santa Marta, il presepe abusivo che si distende lungo le colline su cui sorge il Cristo Redentor, la statua bianca a braccia aperte che accoglie i visitatori di Rio de Janeiro. In quella che fino a tre anni fa era la tana impenetrabile di spacciatori e trafficanti, dove i bambini morivano colpiti per sbaglio da un proiettile, i residenti si preoccupano adesso di come fare ad attrarre i turisti e a convincerli a comprare un souvenir o un paio di Havaianas nelle loro nuove bancarelle a colori pastello anziché nelle boutique borghesi di Ipanema e Copacabana.
Certo l’inflazione, la bestia nera che si era nutrita del Pil brasiliano tra il 1987 e il 1997 a morsi del 40 per cento, ha rialzato la testa in questi ultimi mesi tra la meraviglia degli economisti (bassa crescita e inflazione non vanno normalmente d’accordo), ed è tornata a essere se non un problema, almeno una preoccupazione diffusa. Con un livello medio intorno al 6 per cento, sono molti i politici dell’opposizione di destra a chiedere un intervento della Banca centrale per ritoccare all’insù il tasso di riferimento (ora al 7,25 per cento). Ma nessuno ha fretta.
La variegata coalizione di centrosinistra, guidata da una presidentessa che avrebbe dovuto essere una mera scolaretta dell’ex presidente Luiz Lula da Silva e che invece si è dimostrata la vera dama di ferro del Sudamerica, capace di rimpiazzare senza battere ciglio metà dei suoi ministri accusati di corruzione, non ha nessuna intenzione di allentare le politiche di stimolo ai consumi: dai tagli fiscali a quelli del costo dell’elettricità, dai ritocchi ai beni del paniere sui cui è calcolata l’inflazione alle minacce al sistema bancario, accusato di mantenere troppo esoso l’accesso al credito per i piccoli imprenditori.
Che l’interventismo del governo nell’economia (dalle riforme dell’ex presidente conservatore Fernando Henrique Cardoso agli strumenti assistenziali messi a punto da Lula e migliorati da Rousseff) sia stato cruciale nel risollevare l’economia brasiliana mette ormai d’accordo un po’ tutti. Destra e sinistra. Occidente e Oriente. La "Bolsa familia", un sussidio concesso alle famiglie più povere legato alla frequenza scolastica dei bambini e ad alcune cure mediche; "La mia casa, la mia vita", un programma di costruzione e fornitura di edilizia popolare, e "Fame Zero", il piano economico istituito per raggiungere l’obiettivo di sconfiggere la malnutrizione, sono stati strumenti potenti che hanno permesso a circa 40 milioni di persone (su 200) di uscire dalla povertà in meno di una decade.
Certo senza un pizzico di fortuna sarebbe stato più difficile. Invece le stelle sembrano essersi allineate per il Brasile, almeno per il momento. Le riforme degli anni Novanta hanno consentito alla moneta brasiliana, il real, di stabilizzarsi, favorendo l’aumento delle esportazioni. La crescita della Cina e la sua sete di materie prime hanno reso la potenza sudamericana un fornitore all’ingrosso obbligato. Lo Stato di Rio ha recentemente scoperto immensi giacimenti di petrolio offshore in profondità per cui la compagnia nazionale, Petrobras, possiede la tecnologia estrattiva. Infine la diffusione di Internet e delle nuove tecnologie hanno decimato i costi della comunicazione e degli scambi internazionali.
Ora è tempo di farsi pubblicità. Con la giornata della Gioventù questo luglio, che rappresenterà anche il primo viaggio all’estero del nuovo papa latinoamericano Francesco, inizia un triennio all’insegna dei grandi happening internazionali: l’anno prossimo il Brasile ospiterà i Mondiali (tanta è l’attesa per lo scontro Brasile-Argentina) e nell’agosto del 2016 Rio de Janeiro sarà la città dei Giochi olimpici.
La successione degli eventi non costituirà solo la vetrina meritata degli incredibili progressi compiuti dal Brasile in questo millennio ma è fin da ora soprattutto l’occasione, dopo 30 anni di negligenza e incuria, di investire in quelle infrastrutture di cui cittadini e investitori hanno urgente bisogno: la riqualificazione dei centri urbani degradati, l’ammodernamento e la costruzione dei porti, l’ampliamento della rete autostradale e di quella ferroviaria, la costruzione di scuole pubbliche e di strutture alberghiere per accogliere il numero crescente di investitori e turisti. «Esistono due tipi di Olimpiadi», dice senza mezzi termini all’"Espresso" Edoardo Paes, il sindaco di Rio de Janeiro appena rieletto: «Quelle che consumano le risorse delle città e quelle che sono sfruttate dalle città per migliorare le condizioni di vita della popolazione. Noi di Rio guardiamo a Barcellona, non ad Atene».
A differenza della Cina, il Brasile, la più grande democrazia del Sudamerica, nei suoi primi anni di crescita ha privilegiato la riduzione delle disuguaglianze (tra le 20 maggiori economie mondiali soltano Brasile, Argentina e Messico hanno livelli di disuguaglianza calanti) alla costruzione di strade, porti, treni che la sua popolazione non si sarebbe mai potuta permettere di utilizzare (il Brasile è tutt’ora il quindicesimo Paese del mondo per inquità sociale). Solo adesso, raggiunto un maggior livello di benessere, è alla ricerca sistematica di investitori stranieri che lo aiutino a fare il salto di qualità. A partire dal treno ad alta velocità che dovrebbe collegare Rio a San Paolo e per cui sono in corsa diverse società internazionali tra cui Trenitalia. «Per quanto non paralizzante come in altri Paesi, la corruzione anche qui è un problema e rallenta gli investimenti infrastrutturali», continua Goldstein: «Dilma è una donna forte e competente ma forse al prossimo giro ci sarebbe bisogno di un ricambio di partiti, lo stesso che nel 2002 portò Lula».
Le elezioni si terranno solo alla fine del 2014. Tra i Mondiali e Olimpiadi. Per il Brasile il triennio delle grandi sfide è appena agli inizi.