Michele Neri, Vanity Fair 20/3/2013, 20 marzo 2013
GRAZIA NERI QUELLO CHE MI MANCA
Non capita spesso di avere una mamma con il proprio nome pubblicato ogni giorno, e per decenni, su tutti i giornali italiani. E con una particolarità: in verticale invece che in orizzontale. Per leggerlo, occorre ruotare il giornale di novanta gradi. Grazia Neri. Scritto accanto a una fotografia. Spesso la migliore possibile, e su ogni argomento. Foto Grazia Neri: il marchio che per quarant’anni ha voluto dire «fotografia», creato da chi ha valorizzato una professione, quella dell’agente fotografico, e fondato la più nota agenzia fotografica d’Italia, una delle più rispettate nel mondo. Un nome celebre per una non celebrità: punto di riferimento per fotoreporter e ritrattisti leggendari, mentre per i lettori dei giornali restava una figura misteriosa, in grado di immortalare, ogni giorno, l’attualità e i personaggi di trenta Paesi diversi.
Dopo che la sua Agenzia è stata chiusa nel 2009, Grazia Neri (il cognome preso dal primo marito, il suo è Casiraghi) ha provato adesso a rievocare la sua impresa: fare di Milano un centro per la fotografia, e della sua Agenzia quasi una piccola città ideale, dove anticonformismo, romanticismo e sperimentazione sono andati di pari passo con metodo e rigore. La sua storia è diventata un libro, il nome è finalmente scritto in orizzontale, sopra La mia fotografia. È la cronaca di un amore, alimentato dalla convinzione che «Una fotografia vive se viene guardata, e muore se nessuno la guarderà più». L’Agenzia, necessaria per sprovincializzare gli sguardi e difendere quell’idea che sembra sul punto di scomparire proprio ora: il copyright, i diritti del fotografo.
Nel libro c’è la povertà del dopoguerra, il successo degli anni Ottanta, ci sono gli scoop, i dolori, le mostre prodotte, l’intimità con i più grandi fotografi, quarant’anni di notizie viste in anticipo, protagonisti leggendari e tante utopie. La Milano ideale, quella della crescita forte della cultura e dell’imprenditoria degli anni Sessanta, e che ha saputo riconoscere «nella Grazia Neri» curiosità, cosmopolitismo, il senso che bisogna sempre fare; subito, in fretta e bene. Pagine fedeli al suo principio: «Ho letto disperatamente, ho lavorato come se fosse un gioco, ho amato con amore, spesso non sono stata all’altezza». Sull’ultima affermazione, posso dire che lo pensa davvero.
Un fenomeno. Potessi scegliere una parola soltanto, per descriverla, direi questo: mia mamma è un fenomeno. Non un mito, qualcosa più umile e a portata di mano, ma che ti sorprende sempre. I suoi occhi, in 54 anni di lavoro, avranno valutato, venduto, archiviato, protetto il destino di milioni di fotografie; selezionato o scartato star, scoop, guerre, tutti i cappelli di Lady D e tutti i profughi del pianeta, disperazioni nere e baci appassionati. Le hanno viste tutte, senza averne mai scattata una, di fotografia.
Riporto tre date fondamentali. Nel gennaio del 1945, Grazia Neri perde il papà, malato di tubercolosi. Il 19 luglio del 1954, il giorno dopo la maturità linguistica, inizia a lavorare, ancora con il grembiule, in un’agenzia di attualità milanese, la News Blitz. In un’imprecisata sera milanese della fine del 1965, viste le scarse prospettive di quest’agenzia, decide, senza una lira, di aprirne una sua.
Prima dell’intervista, una trappola. Le dico che le mando prima le domande, poi non lo faccio. Quando ci sediamo al solito tavolo di tanti pranzi ed estraggo il foglietto delle domande, lei lo vede ed esclama: «Urca malora!».
Perché questo titolo?
«Si riferisce sia alle fotografie di famiglia sia al mio punto di vista rispetto al lavoro, per raccontare quella che è stata la mia idea di una fotografia verso gli altri, la distribuzione».
Nel libro c’è un capitolo sugli errori commessi. E le cose giuste, invece?
«Aprire l’agenzia senza avere soldi. Poi: se si deve fare una scelta nel lavoro, è meglio essere i primi. Affrontare subito l’imprevisto e senza smettere di nuotare nella vita. Non aspettarmi mai troppo. Preferire vendere, invece di acquistare».
La rapidità del tuo colpo d’occhio è celebre. Come nasce?
«Viene dalla lettura precoce, dalla solitudine, dal guardare milioni di foto, editarle sui provini a grande velocità, cercare sempre la notizia».
Hai lavorato con i più importanti fotografi del mondo. Come li hai affrontati?
«Con la serietà. Quando l’Agenzia è diventata più grande, il tempo individuale era poco: rimaneva quella triste parola, “appuntamento”. Ho usato il tempo per dire i “no”. Per suggerire che un servizio era brutto, per avvisare il fotografo sulla strada sbagliata. Non per rallegrarmi delle cose riuscite».
I momenti più importanti tra un agente e un fotografo?
«Sono la lettura del portfolio e la visione di un suo servizio completo. Hai davanti sia il prodotto che il creatore. Un incontro intimissimo, se lo fai bene. Una lezione di vita reciproca. Partecipi alle sue paure, al suo destino».
È crisi per la fotografia sulla carta stampata. Che cosa ti appassiona ancora?
«Sono sempre attratta da come sono raccontate le storie. Nella lettura dei giornali, cerco un’informazione che non faccia perdere tempo. Mi fa impazzire non trovare, nei quotidiani, le didascalie vicino alle fotografie. Peggio ancora, non vedere citato il nome del fotografo».
Il momento in cui hai detto: però!
«Negli anni Ottanta. Aprivo le riviste e trovavo così tanti servizi fotografici firmati con il mio nome».
La volta che ti sei fatta fregare?
Ci pensa a lungo, le altre risposte in un lampo. Niente.
Lo scoop che non hai avuto?
«La foto del primo marziano in esclusiva per 48 ore».
Mille exploit, uno cui sei affezionata?
«Aver convinto Giorgio Armani a farsi fotografare da Roger Hutchings, un reporter specializzato in conflitti».
Hai lavorato con tutti i grandi ritrattisti: da chi vorresti essere fotografata?
«Per essere vera? Da Eisenstaedt. Per sentirmi bella da Giancarlo Botti, che ai primi anni Settanta aveva saputo esaltare, senza trucchi, la sensualità della Bardot e di Romy Schneider. Di nuovo da Douglas Kirkland, che ha scattato anche la foto per la mia carta d’identità».
Le fotografie che ti hanno fatto pensare di smettere?
«Quelle dei cadaveri, della gente disperata. Nelle guerre civili in Nicaragua, in San Salvador. In Ruanda, tra Hutu e Tutsi».
Una foto che non puoi dimenticare?
«Quella di Frank Fournier. Gli occhi di Omayra Sánchez, la bambina vittima dell’eruzione di un vulcano in Colombia. Era bloccata nel fango, non riuscirono a salvarla. Mi riconduce al destino, alle ingiustizie senza spiegazione. Al perché ci hanno messo al mondo qui, se poi la vita è questa. I giornali ora non pubblicano più la grande attualità, il mondo con le sue tragedie è quasi scomparso. I giornali mostrano soltanto facce».
L’ultima foto di un attore che ti ha fatto dire: accidenti!
«Jude Law sul New Yorker, vestito come un Amleto contemporaneo».
Le fotografie di Grillo, Bersani, Renzi, Berlusconi. Che cosa ti fanno venire in mente?
«Grillo non verrà mai bene in foto, perché c’è un’indeterminatezza, dove comincia la faccia e dove finiscono i capelli. Lui sì avrebbe bisogno di Photoshop. Renzi: gli manca qualcosa per essere un bell’uomo, appare un simpatico pinocchietto. Bersani: è sempre serio, con i capelli soltanto di lato, mi dà noia il sigaro; non lo potrebbe migliorare nemmeno Annie Leibovitz. Vorrei vedere Berlusconi fotografato dopo che si è rapato a zero».
Che cosa penseresti, se un ragazzo ti dicesse: voglio fare il fotografo?
«Poverino, coraggio, ma i soldi li hai?».
E a lui che cosa diresti?
«Domandati se hai davvero qualcosa da raccontare».
In quanto donna, hai avuto problemi a fare questo lavoro?
«No, ci sono stati piccoli episodi, avance stupide. Nel libro ne racconto una. Un fotografo m’invitò in pattìno a Fregene, proponendomi un accordo: lavoro in cambio di sesso! Meno male che sapevo nuotare».
Immagini in cui avresti desiderato vivere, anche solo un momento?
«In quelle dei grandi amori, come quello tra Liz Taylor e Richard Burton, il senso di una passione che solo se sei ricco, bello e un po’ pazzo ti puoi permettere».
Questa è un pezzetto della storia di mia madre. Di una donna che odia le sale d’attesa e mangerebbe sempre prima la cosa più cattiva, non ha mai imparato ad andare in bicicletta perché non sa voltare, e in ottobre ha già comprato l’agenda dell’anno dopo. Adora leggere Nabokov e Rimbaud (il rarissimo ritratto del giovane poeta è la sua fotografia preferita).
La grande stagione delle agenzie fotografiche è nata assieme alle sue intuizioni e si è conclusa – Internet, la crisi economica e della stampa, la concorrenza delle multinazionali della fotografia come Corbis e Getty – con il suo ritiro.
«Sì, è stato come un giro di valzer».
In quale foto vorresti vivere?
«Nelle immagini della fine della seconda guerra mondiale. Con le ragazze che ballano per strada a Parigi. Pensa che felicità! Nel 1945, io invece ho perduto il papà».
Il tuo libro è un omaggio al papà, alleato segreto contro tutte le paure?
«Forse con questo libro sono riuscita a far sì che qualcuno lo possa conoscere. Se no, quando io morirò, non ci sarà nessuno che saprà che lui è vissuto».
Spunta, ignota anche a me, la foto perduta: «L’ha scattata mia mamma, si vede il papà che legge un quotidiano davanti e io, piccola, che lo leggo dietro».