Laura Pezzino, Vanity Fair 20/3/2013, 20 marzo 2013
IL GRANDE HOLDEN
«Qui ci sarà l’aula di recitazione, con il pavimento in legno di pioppo. Laggiù si intravede la Manica degli Obici, per la quale Alessandro ha un progetto top secret con lo scenografo Dante Ferretti».
La Scuola Holden compie 20 anni e diventa grande. Si dà un nuovo nome, che da solo sa già di America: Scuola Holden. Storytelling and Performing Arts. Passa da 500 a 4.047 metri quadrati, da quattro a dieci aule. Si apre a 400 nuovi studenti ogni anno, invece dei 60 che ospita ora. E, dall’8 ottobre 2013, si trasferisce dentro l’ex Caserma Cavalli, nel quartiere torinese di Borgo Dora. Proprio lì davanti, e solo a un visionario come Alessandro Baricco poteva capitare un panorama simile, staziona un gigantesco pallone aerostatico, il Turin Eye, dove è possibile scrutare la città dall’alto.
Di tutto quello che sarà, tra poco meno di 200 giorni, la grande scuola, per ora si vedono solo calcinacci, muri scrostati, mattoni impilati, pavimenti sventrati. A portarmi sul cantiere è Lea Iandiorio, direttrice della scuola e da una decina d’anni braccio destro di Baricco. «Ecco, lì invece metteremo la reception e il gift shop, con gadget e prodotti realizzati in collaborazione con Feltrinelli, come i libri della collana Save the Parents».
Il grandioso progetto è stato possibile grazie all’arrivo, nel marzo 2012, del socio Effe 2005 – Gruppo Feltrinelli S.p.A., che attualmente partecipa al capitale sociale di Holden srl per poco meno del 50 per cento. Un accordo che Carlo Feltrinelli, presidente di Effe 2005, definisce un’«affinità elettiva»: lo ha spinto a finanziare «quella che oggi è, e lo sarà sempre più nel futuro con questo ambizioso progetto di sviluppo, una fucina non solo di narratori».
Ma la nuova Holden non si fermerà qui: aprendo le porte anche ai normali cittadini per attività e incontri, contribuirà a riqualificare un intero quartiere, Borgo Dora, che fino a ieri era considerato uno dei più malfamati della città. Un incrocio di vicoli famosi per il Balôn, il mercatino delle pulci, le trattorie dove il menu è scritto ancora a penna, la mercanzia dei negozi di robivecchi esposta per strada e i recenti fornai arabi.
Quello che sostanzialmente verrà insegnato in questo posto dell’eccellenza italiana è l’arte della narrazione, in tutte le sue declinazioni. L’attività didattica sarà suddivisa in sei discipline chiamate «college»: Scrivere, Filmmaking, Acting, Series, Real World e Crossmedia, il cui insegnamento, tranne che per la scrittura pura, diventerà man mano bilingue (italiano e inglese).
Le iscrizioni alla scuola – fa anche parte della European Association of Creative Writing Programmes (EACWP) che riunisce le migliori scuole di scrittura creativa europee – si apriranno il 2 aprile, quando verrà attivato il nuovo sito (www.scuolaholden.it), e ciascuno dei due anni costerà tra gli 8 e i 9 mila euro.
Troppo? Dipende: finora, il 70% degli holdeniani diplomati (24,5 l’età media, uomini e donne in uguale proporzione) ha trovato lavoro in ambito narrativo, e da qui sono usciti alcuni dei protagonisti della cultura italiana degli ultimi anni. Solo qualche nome: gli scrittori Paolo Giordano, Fabio Geda, Davide Longo, Giorgio Vasta, Elena Varvello, Pietro Grossi, i registi e sceneggiatori Alice Rohrwacher e Marco Ponti. E di qui sono passati insegnanti come Jonathan Coe e Marcello Fois, Elizabeth Strout e Francesco Piccolo, Craig Thompson e Stefano Benni.
Incontro il preside Baricco qui davanti, in un ventoso pomeriggio di marzo.
Si ricorda la prima volta in cui parlò del progetto di una scuola di scrittura?
«È stato 20 anni fa, nella mia casa di campagna. Esposi la mia idea a Marco San Pietro, che era stato il mio vicino di banco al liceo e poi sarebbe diventato uno dei cofondatori. Era un manager, e volevo capire se aveva un senso economico».
Chi furono i «cavalieri che fecero l’impresa»?
«Oltre a Marco, Antonella Parigi, che adesso dirige il Circolo dei lettori di Torino, e Alberto Jona, cantante e musicologo, il più colto tra di noi».
A quali modelli si era ispirato?
«A nessuno. Erano anni in cui ero molto presuntuoso e non pensavo che ci fosse in giro qualcosa da copiare».
La Holden può sostituire l’università?
«Più esperienze si fanno meglio è. Per esempio, una combinazione università più Holden è buona, ma anche Holden più una scuola anglosassone. L’unica condizione è riuscire a studiare il più possibile, se ce lo si può permettere».
Negli anni, la sua «creatura» ha ricevuto numerose critiche. La prima: non si può insegnare la creatività.
«Qualcuno all’inizio parlò addirittura di truffa, perché sembrava che io volessi monetizzare il mio successo coi libri e la Tv, quando invece la scuola è nata prima di queste cose. Se fosse stato così, sarei scappato con la cassa tre anni dopo. In Europa c’era molta resistenza al fatto che certe discipline potessero essere “insegnate”. Certo, il talento non si può insegnare, ma allenare sì. E la creatività può essere liberata. La scrittura si può insegnare perché è un mestiere. Poi, la scuola ha moltissime altre funzioni: rompere l’isolamento, servire da ascensore sociale. Ci sono ragazzi che in famiglia non hanno avuto nessuno interessato alle storie e alle arti. Di sicuro, dopo il biennio da noi hanno modo di accedere a un mondo nuovo».
La seconda critica: essere snob.
«La snobberia ogni tanto non è male. È un modo, magari non il migliore, di superare la banalità dei luoghi comuni».
La terza: la sua scuola costa troppo.
«Il fatto che una scuola costi tanto è un punto di partenza molto buono: per l’allievo significa investire e quindi impegnarsi, per noi è un obbligo a dare il meglio. Se avessimo finanziamenti dallo Stato, non correremmo come stiamo facendo».
In periodo di crisi, chiedere 9 mila euro all’anno non rischia di tagliare fuori chi, pur talentuoso, non se lo può permettere?
«Non esistono scuole davvero per tutti, tranne quelle dell’obbligo. Ma noi ce la mettiamo tutta per evitare che per entrare alla Holden ci sia un ostacolo sociale. Perciò puntiamo sul prestito d’onore: i ragazzi possono farsi prestare i soldi e restituirli in otto anni, con un interesse bassissimo. Le garanzie le diamo noi».
All’estero che cosa dicono della Holden?
«Molti restano affascinati, altri se ne appassionano proprio. Come lo scrittore peruviano, Nobel per la Letteratura, Vargas Llosa: anni fa è venuto qui, ha scoperto che cosa facevamo ed è diventato nostro amico. E proprio lui è tra i candidati a inaugurare il nuovo anno».
È vero che vuole creare la scuola di scrittura più anglosassone d’Italia?
«Non in tutte le discipline gli anglosassoni sono i più bravi».
In che senso?
«Nello scrivere siamo più bravi noi, anche se loro hanno una tradizione più lunga. Alla Holden usiamo un metodo d’insegnamento molto più attento alla voce personale del singolo. Se legge i libri scritti dai nostri studenti non ne troverà due simili. Però nel cinema e nel teatro abbiamo ancora molto da imparare: per questo lavoreremo con la London Film School, incrociando insegnanti e insegnamenti».
Ci spiega che tipo di materie sono Real World e Crossmedia?
«In Real World insegniamo a raccontare il mondo reale, creando una figura “ibrida” di giornalista-autore. Crossmedia è la disciplina a cui mi iscriverei io, se avessi 20 anni. Si tratta di saper raccontare una storia con tutti gli strumenti a disposizione: Twitter, Tv, cinema, pubblicità, fumetti. L’esempio classico è la campagna di Obama: il suo racconto, un uomo nero che vuole salire in cima e regalare agli Stati Uniti un volto migliore, è stato vincente proprio perché “declinato” su ogni mezzo e con ogni linguaggio».
Negli ultimi anni in Italia stanno nascendo molti corsi di scrittura. È positivo?
«Avere molte offerte è meglio per tutti: per chi lavora, perché la concorrenza non ti fa dormire, e per chi “compra”, perché può scegliere in base alle sue possibilità. È un mestiere che più lo si fa collettivamente migliore diventa».
Ha una formula per salvare la cultura italiana?
«Per essere pragmatici, andrebbero risolte due questioni. La prima: investire, e tanto, nella scuola, soprattutto elementare e media. Più insegnanti, che insegnano meno e studiano di più. La seconda: togliere il tabù della cultura come servizio pubblico e incrementare l’imprenditorialità. Non vuol dire che bisogna buttarla in pasto al mercato, ma non si può continuare
a tenerla al riparo dal mercato in roccaforti rigide e gestite con principi vecchi».
Holden-Feltrinelli: come è nato questo «matrimonio»?
«Noi da soli non avremmo potuto farcela. Conoscevo Carlo Feltrinelli da anni e sapevo che non sarebbe stato disposto a subire la crisi passivamente. Essendo a suo modo un pioniere, avrebbe colto l’opportunità della crisi per trasformare anche la propria azienda. Ci siamo capiti subito e siamo diventati compagni. Tra un mese arriverà anche un terzo socio molto forte, ma non posso svelare nulla».
Il nome della scuola deriva dal romanzo Il giovane Holden di J.D. Salinger. Come era lei all’età di Holden Caulfield?
«In ritardo. Sono uno lento, anche se non sembra. Ho iniziato a scrivere a 30 anni, mi sono sposato a 40, il primo figlio a 41. A 14, ero un bambino di dieci anni».
La nuova scuola potrà cambiare, almeno un po’, l’Italia?
«Uno dei modi di cambiarla è fare le cose. Uno ne fa una, uno ne fa un’altra, e quando sono cento questo Paese è un po’ diverso».
Dica la verità: si sarebbe mai immaginato tutto questo 20 anni fa?
«Forse sì: quando si è giovani non c’è mai un soffitto».