Maurizio Tortorella, Panorama 21/3/2013, 21 marzo 2013
J’ACCUSE L’ACCUSA
Le prove contro il suo primo cliente, secondo i magistrati dell’accusa, erano «schiaccianti»; quando fu arrestato, 30 anni fa a Roma, un pubblico ministero aggiunse testualmente che «più cercavamo indizi sulla sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza». Cinque anni fa, mentre a Pescara scattavano altre manette, altri pm convocarono addirittura una conferenza stampa per dichiarare, trionfanti: «Gli indagati sono schiacciati sotto una valanga di prove, che nessuna difesa potrà mai confutare».
Giandomenico Caiazza scuote la testa: «Il tempo passa, ma la cultura giudiziaria non cambia». Alla metà degli anni Ottanta, prima da giovane praticante e poi da procuratore legale, Caiazza partecipò alla difesa di Enzo Tortora: e dalle «prove schiaccianti» si sa bene dove si arrivò. Dal 2010 Caiazza è l’avvocato di Ottaviano Del Turco, l’ex governatore dell’Abruzzo sotto processo per la Sanitopoli regionale. E anche qui la «valanga di prove» sembra si stia squagliando al sole. Arrestato il 14 luglio 2008, Del Turco è accusato di associazione per delinquere e concussione perché avrebbe costretto l’imprenditore delle cliniche Vincenzo Angelini a pagare tangenti per 6,2 milioni di euro. Scaricato brutalmente dal Pd, il suo partito, Del Turco restò 28 giorni in cella d’isolamento, lui che era stato presidente della commissione parlamentare Antimafia, nella sezione del carcere di Sulmona destinata ai mafiosi. Dopo altri tre mesi di arresti domiciliari a Collelongo (L’Aquila) ha subìto la residenza obbligata. Da allora la sua carriera politica è finita in fumo, come la giunta che presiedeva. Rinviato a giudizio nel novembre 2010 con altri 36 indagati, in due anni di processo e soprattutto nelle ultime udienze l’imputato è però riuscito a ribaltare la situazione. «I testi dell’accusa» dice Caiazza «hanno dovuto confermare non solo di non avere trovato un euro, ma nemmeno la sua traccia. Eppure hanno passato al setaccio perfino i conti dei parenti e degli amici; e le persone che rubano, di solito, lo fanno per cambiare vita». Invece, aggiunge l’avvocato, «per comprare una casa al figlio Del Turco ha dovuto svendere alcuni quadri». Il vero colpo, però, è venuto nelle ultime udienze. Durante le indagini Angelini aveva prodotto alcune fotografie, che la procura aveva definito «la prova regina»: le foto, immagini confuse che secondo l’accusa ritrarrebbero mazzette di soldi e lo stesso Angelini fuori dalla casa Del Turco, dimostravano a dire del teste l’ultima consegna delle tangenti a casa dell’imputato il 2 novembre 2007, una data che era stata confermata in aula anche dalla moglie, dall’autista e da due segretarie di Angelini.
Ma ora la prova è stata smontata dal perito della difesa: è riuscito a dimostrare che furono scattate in una data precedente almeno di un anno rispetto a quella dichiarata da Angelini. Tutto questo oggi fa pronunciare a Caiazza una frase decisamente forte: «Per noi è ovvio constatare un’accusa organizzata a tavolino da chi ha consegnato quelle foto ai pm». Intanto un’altra perizia sul Telepass dell’auto ufficiale di Del Turco ha confermato che il governatore non si trovava a casa nella gran parte delle date e degli orari che Angelini aveva indicato come quelli dei loro presunti 19 incontri a Collelongo. Insomma, come ha scritto L’Unità, «la prova regina si è rivelata una bufala». Ovviamente il processo continua. Le udienze dovrebbero finire in settembre, poi arriverà la sentenza e si vedrà. Caiazza, intanto, pare più sereno. Questo non gli impedisce d’infervorarsi: «C’è un’angosciosa similitudine fra i processi Tortora e Del Turco. In entrambi, e non capita spessissimo a un penalista, ho subito avvertito l’eclatante assurdità dell’accusa. E in entrambi si è scatenato lo stesso pernicioso meccanismo: l’emergere dell’innocenza dell’imputato si trasforma in un evento percepito dai magistrati come un’accusa nei loro confronti». Caiazza si spiega. «Un mese dopo l’arresto di Tortora la difesa riuscì a provare, producendo la corrispondenza intercorsa tra il pentito Giovanni Pandico e la redazione di Portobello per la restituzione di alcuni centrini da tavolo inutilmente inviati da un suo compagno di cella, le ragioni per le quali il pentito, recidivo per calunnia, aveva fatto le sue accuse. Ma questo moltiplicò l’impegno accusatorio, invece di placarlo. Spuntarono altri 11 pentiti e l’agenda telefonica di un camorrista con un numero a fianco del quale si volle leggere per mesi il nome e cognome del povero Enzo, mentre si trattava del commerciante casertano Enzo Tortona». La stessa logica, sostiene il penalista, a suo modo starebbe caratterizzando il processo a Del Turco: «A Pescara nel 2008 è stata decapitata una giunta regionale, legittimamente in carica, con conseguenze irreparabili sul piano istituzionale. Capisco quanto possa costare ai pubblici ministeri, professionalmente e umanamente, prendere atto che l’accusa era infondata. Ma non giustifico l’accanimento, l’atteggiamento colpevolista senza riserve, la negazione della pur doverosa presunzione d’innocenza».
Dal processo, in effetti, sono emersi molti elementi di dubbio e una certa fragilità dell’impianto accusatorio. «Io non conosco» continua Caiazza «le ragioni e le modalità che hanno portato Angelini all’improvvisa decisione di accusare Del Turco e la sua giunta. So però che i carabinieri qualche mese prima che scattassero le manette per l’ex governatore avevano chiesto l’arresto di Angelini. E so dagli atti che la gran parte delle indagini volte a trovare riscontri al monologo accusatorio di Angelini si è svolta dopo l’arresto di Del Turco».
Caiazza percepisce l’accanimento dell’accusa, anche in aula. «Ogni nostro teste è sempre accolto con sospetto, visto come un intenzionale eversore dell’unica verità: “Del Turco è colpevole”. D’altronde, perfino i messaggi degli amici, inviati in carcere all’arrestato, sono stati definiti “pizzini” e portati in tribunale come fossero la conferma della vasta rete di amicizie che avrebbe reso possibile l’inquinamento probatorio; quei messaggi sono stati usati per tenerlo agli arresti. Fossi stato in Walter Veltroni mi sarei inalberato. Invece fin dal giorno dell’arresto l’allora segretario del Pd, piuttosto che protestare per la pubblica crocifissione di un fondatore del suo partito, un uomo sempre ritenuto onesto, che con la sua giunta aveva tagliato alle cliniche private di Angelini e degli altri prestazioni sanitarie inappropriate per 110 milioni, si limitò a dire ai giornali: “La magistratura faccia il suo lavoro”».
La gogna mediatica è un’altra faccia del problema: «Agli inizi ho trovato nei giornali un atteggiamento colpevolista, che soltanto oggi si sta modificando» sottolinea Caiazza. «Ma troppo spesso il ruolo della stampa viene deviato, manipolato. Se un documento viene dai pm è un fatto; se viene dalla difesa è un’opinione, contaminata dall’interesse di parte».
Come in un rimbalzo, il pensiero torna a Tortora: «Nell’aprile 1988 chiamò in clinica il civilista Vincenzo Zeno-Zencovich e me. Dieci mesi prima, nel giugno 1987, Enzo era stato assolto in Cassazione. Purtroppo era già grave: stava nel suo letto, tossiva e soffriva molto. Ci disse: “Chiediamo un risarcimento di 100 miliardi di lire”. Alla nostra perplessità spiegò: “Signori, qui dobbiamo fare rumore, notizia. Quei soldi io non li vedrò mai, m’hanno ammazzato. Ma è importante che la gente sappia, che capisca”. Poi fece una battuta: “Certo che sarebbe proprio bella una mia foto sui giornali con l’assegnone in mano, come quello del Signor Bonaventura”. Enzo pensava al personaggio del Corriere dei piccoli. E a quell’idea, malgrado le sue condizioni, rise».
Tortora morì esattamente un mese dopo. Il risarcimento non arrivò mai.
Caiazza continua nel suo doppio j’accuse: «Tortora diceva sempre che la sua vicenda era stata come una bomba atomica esplosa nello stomaco. Anche a Del Turco hanno devastato la vita, la carriera, il contatto con la gente. Non dimenticherò mai quando scese dalla mia auto, a Pescara, per l’udienza preliminare. Un tale gli gridò dietro: “Ladrooo!”. Fu come una fucilata nel petto». L’altro grande problema è il carcere. «Chiederlo comunque, accanirsi nel suo utilizzo e in quello delle altre misure restrittive è un riflesso tipico dei pm» dice il penalista «anche di quelli più in buona fede: è come se s’impossessassero dell’indagato, la loro presa non molla mai».
E anche qui la cultura giudiziaria non cambia, ma anzi infetta la politica. Un senatore del Pd, Maurizio Migliavacca, ha appena dichiarato che voterebbe «sì» a un’eventuale richiesta di arresto del collega Silvio Berlusconi, finora nemmeno prospettata da un pm. «Ma come fa Migliavacca a parlare, se quella richiesta non è mai stata proposta?» si accalora Caiazza. «E poi, non potrebbe essere immotivata? Sarebbe questa la sinistra che un tempo si diceva garantista? Nessuno ascolta il presidente della Corte di cassazione, Ernesto Lupo, che da tre anni inaugura l’anno giudiziario scagliandosi contro l’uso abusivo della custodia cautelare?».
Forse Tortora è davvero morto invano.