Maurizio Molinari, LA STAMPA 21/3/2013, 21 marzo 2013
Dietro il viaggio di Barack Obama in Medio Oriente c’è la scelta strategica di favorire un riassetto regionale che favorisca le tre potenze locali alleate: Arabia Saudita, Turchia e Israele
Dietro il viaggio di Barack Obama in Medio Oriente c’è la scelta strategica di favorire un riassetto regionale che favorisca le tre potenze locali alleate: Arabia Saudita, Turchia e Israele. Rispetto al 2009, quando Obama parlò al mondo arabo dal Cairo, il Medio Oriente è radicalmente mutato per due motivi. Il primo ha a che vedere con l’impatto delle sollevazioni che hanno spazzato via gli alleati in Tunisia, Egitto e Yemen, rovesciato l’avversario di Tripoli e di molto indebolito quello di Damasco rendendo possibile nuovi equilibri di forza. Il secondo invece riguarda gli Stati Uniti: lo sfruttamento dello «shale gas» in Canada, il boom petrolifero in Texas e North Dakota e il nascituro mega oleodotto dall’Alberta al Golfo del Messico rendono possibile la trasformazione del Nordamerica in un colosso energetico capace di garantire agli Stati Uniti, secondo stime a conoscenza della Casa Bianca, l’indipendenza dal greggio del Golfo Persico fra il 2016 e il 2020. Ciò significa che gli Stati Uniti, per la prima volta dalle concessioni petrolifere saudite alla «Standard Oil of California» del 1933, possono immaginare di emanciparsi dalla regione più instabile del Pianeta. Poiché i presidenti Usa nel loro secondo mandato hanno in mente l’orizzonte della Storia, ciò comporta che Obama è – dai tempi di Franklin D. Rooselvt – il primo a poter gettare le basi di un nuovo assetto strategico del Medio Oriente nel quale gli Stati Uniti «guidano da dietro» ovvero senza un impegno diretto, puntando sui propri alleati. È un cambiamento che Obama vede con favore perché consente all’America, in prospettiva, di avere meno attriti con l’Islam e più energie da impegnare nelle sfide del XXI secolo: contenimento della Cina, commerci transoceanici e sicurezza nel cyberspazio. L’alleato di Washington che ha intuito per primo la svolta è stata l’Arabia Saudita. È avvenuto quando Obama, lo scorso anno, ha posto il veto sulla fornitura di armi ai ribelli siriani. Dopo una reazione a caldo di forte irritazione, a Riad raccontano diplomatici a Washington - è prevalsa la convinzione che toccasse al regno wahabita sostituirsi agli Usa nel ruolo di potenza di riferimento dei ribelli anti-Assad. Da quel momento Riad ha preso le redini delle forniture di armi e costruito dentro la Lega Araba la coalizione antiAssad da cui sono escluse solo le capitali sotto l’influenza di Teheran: Baghdad, Beirut e, ovviamente, Damasco. L’emergere dei sauditi come leader del fronte sunnita, anche nelle operazioni militari, si deve all’indebolimento dell’Egitto di Morsi e si accompagna al crescente ruolo del più importante alleato non-arabo di Riad: la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Ankara è considerata da Washington la nazione di riferimento per i movimenti della primavera araba considerati «islamici moderati» ovvero quelle formazioni dei Fratelli Musulmani che, dal Cairo a Tunisi fino ad Amman, possono trovare nel partito «Giustizia e Sviluppo» di Erdogan un modello. Il leader di Ankara non a caso è il più fervido sostenitore delle aperture Usa agli «islamici moderati», fino al punto da includervi i fondamentalisti di Hamas a Gaza. Il terzo alleato strategico di Washington nella regione è lo Stato ebraico e i motivi sono quelli descritti ieri da Obama all’arrivo: valori democratici, interessi comuni e legame morale dell’America con la rinascita sionista nella Terra di Israele. Finora Gerusalemme è stata più lenta, rispetto a Riad ed Ankara, nel ritagliarsi un’indipendenza di azione da Washington. Ma le premesse ci sono tutte: gli ingenti giacimenti di gas naturale a largo di Haifa consentono di immaginare l’emancipazione dal greggio, il boom dell’hi-tech promette di sostenere nel lungo termine la crescita economica e i blitz in Siria e Sudan suggeriscono maggiore flessibilità militare. La transizione dall’era della «pax americana» ad un Medio Oriente in equilibrio fra sauditi, turchi e israeliani potrebbe avere il momento decisivo nell’eliminazione del nucleare iraniano perché Teheran, grazie all’atomica, potrebbe guidare l’alleanza rivale, sciita, con continuità territoriale dal Beluchistan alla Bekaa.