Massimo Vincenzi, la Repubblica 21/3/2013, 21 marzo 2013
Da quando il cinema è cosciente della sua storia, ha celebrato e rimpianto il proprio passato. E di recente si sono fatti più frequenti i film che ricalcano le vicende di altri film, con attori che interpretano altri attori, e immaginano i dietro le quinte e i segreti di film più o meno mitici
Da quando il cinema è cosciente della sua storia, ha celebrato e rimpianto il proprio passato. E di recente si sono fatti più frequenti i film che ricalcano le vicende di altri film, con attori che interpretano altri attori, e immaginano i dietro le quinte e i segreti di film più o meno mitici. Lo aveva fatto Clint Eastwood, raccontando sotto mentite spoglie John Huston in Cacciatore bianco, cuore nero; lo ha fatto tangenzialmenteMartin Scorsese in The Aviator, e poi abbiamo visto il Quarto potere di Orson Welles raccontato in Rko 281 e la Marilyn interpretata dalla volenterosa Michelle Williams sul set di Il principe e la ballerina. In Italia, invece, si possono ricordare Good Morning Babilonia dei Taviani (su due italiani alla corte di David Wark Griffith), e Cinecittà di Carlo Lizzani, con Massimo Ghini che faceva Rossellini alle prese con Roma città aperta. Il 4 aprile, ultimo della serie, esce in Italia Hitchcock di Sacha Gervasi, sulla lavorazione di Psycho( in Italia Psyco senza acca): con Anthony Hopkins nei panni del “mago del brivido”, Helen Mirren in quelli della moglie, e Scarlett Johansson nel ruolo di Janet Leigh, mentre negli Stati Uniti va in onda la serie Bates Motel, che racconta il prequel della storia. Alle spalle del film c’è uno di quei libri americani puntigliosissimi e pieni di fatti, L’incredibile storia di Psycho di Stephen Rebello, che Il Castoro rimanda in libreria con una nuova prefazione dell’autore. Rebello è un fan maniacale, e basandosi su decine di interviste a collaboratori racconta la genesi del film. Fin dalle sue radici in un fatto di cronaca accaduto qualche anno prima nel Wisconsin, quando in casa del cupo e riservato Ed Gein vengono trovate parti di numerosi corpi femminili, rivelando uno dei più efferati serial killer d’America. Subito dopo, lo scrittore Robert Bloch ne trae un romanzo, buttandola sul freudiano e immaginando che il maniaco si travestisse coi panni della madre morta. Hitchcock compra i diritti del libro di Bloch. Ma la storia, per i canoni hollywoodiani, non è semplice da mettere in scena. Dalla stesura delle sceneggiature alle riprese, dal montaggio all’uscita, incontriamo lungo il racconto di Rebello personaggi noti e meno noti: lo sceneggiatore Joseph Stefano, che dopo Psycho non farà granché; la collaboratrice alle sceneggiature Joan Harrison, moglie di un grande scrittore di spy-stories, Eric Ambler; il musicista Bernard Herrmann, che compose una colonna sonora “in bianco e nero”, solo per archi; il grafico Saul Bass, mago dei titoli di testa, che darà un apporto fondamentale alla scena difficilissima dell’omicidio del detective Arbogast in cima alle scale. E ovviamente al famoso assassinio sotto la doccia. La celebre scena infatti fu girata prima in 16mm, come una specie di schizzo preparatorio, poi appunto disegnata inquadratura per inquadratura da Bass, e infine girata davvero, con la povera Janet Leigh nuda solo nei punti che dovevano essere inquadrati. I censori poi vedranno, o crederanno di vedere, un frammento di nudo integrale nella scena, e intimeranno di tagliare. «Il giorno dopo», racconta Rebello, «Hitchcock si limitò a rimettere il film nella pizza e lo rispedì ai censori senza tagliare nemmeno un fotogramma. Stavolta, i tre membri della commissione che avevano visto il nudo il giorno prima non lo vedevano più, mentre i due che non l’avevano visto ora lo vedevano ». Ci sono poi gli attori, tutti emergenti ma nessuna star: il coraggioso Anthony Perkins, che non si scrollerà più di dosso Norman Bates per tutta la carriera; Vera Miles, “bionda hitchcockiana” mancata per eccesso di indipendenza; Janet Leigh, moglie di Tony Curtis (che aveva appena finito di girare un film con tutt’altri travestiti, A qualcuno piace caldo). E ci sono addirittura tutte le controfigure della “mamma” di Norman Bates, che lungo il film era interpretata non da Perkins ma da tre attrici diverse, tra cui una nana. Mentre la sua voce era un mix di tre doppiatori diversi, due femminili e una maschile. Peraltro, per rendere più fitto il mistero sulla trama, all’ufficio pubblicità furono inviate foto assolutamente insignificanti, e per tutta la lavorazione sul set troneggiava anche una sedia con la scritta “Mrs. Bates”. Quello su cui Rebello insiste è l’eccezionalità del progetto, che si distacca dalle produzioni precedenti del regista, coloratissime e piene di star. È fondamentale in questo senso, per il regista, l’incontro con la televisione. Girando la serie Alfred Hitchcock presenta, il maestro si confronta con un modo di produzione veloce ed economico, e con una certa libertà creativa: all’epoca la tv era un luogo di sperimentazione molto più degli studios hollywoodiani, e da lì era nata o stava nascendo la nuova generazione di registi, da Nicholas Ray ad Arthur Penn a Robert Altman. Per un soggetto rischioso e autoprodotto come quello di Psycho, Hitch utilizza i membri della sua troupe televisiva. E gira in bianco e nero. Insomma, davanti alla sfida di un cinema che cambia, il sessantenne regista inglese decide di ammodernarsi, nei contenuti ma soprattutto nei metodi, con un piccolo film indipendente e quasi sperimentale, ma insieme recuperando la propria impostazione visiva dei tempi del cinema muto. Non è chiaro quanto Hitchcock tenesse a questo film, che secondo molti prese sottogamba rimanendo anzi stupito del suo successo. Lo sceneggiatore Stefano dichiara nel libro: «Era come se per anni avesse servito alla gente banchetti luculliani e straordinari e poi, quando aveva messo in tavola gli hot dog, tutti avessero detto: “È la cosa migliore che abbia mai assaggiato!” Che fine avevano fatto tutti i manicaretti che aveva cucinato fino ad allora?». Comunque, se Psychoregge così bene a oltre mezzo secolo di distanza, non è solo per il suo virtuosismo tecnico, o per intuizioni di sceneggiatura innovative come quella di uccidere la protagonista a un terzo del film. In Psychoil terrore scorre, specie alle visioni successive, assieme a un senso di squallore e di solitudine, creando un perfetto contesto, più esistenziale che sociale, uno sguardo sospeso tra distanza puritana dagli uomini e angosciosa partecipazione. Janet Leigh è una peccatrice terrorizzata; Perkins suscita inquietudine e pena a ogni visione, quando all’inizio dice che nessuno passa più da quelle parti. E il celebre motel, non a caso, è a metà tra la dimora della famiglia Addams e la casa sulla ferrovia dipinta da Edward Hopper.