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 2013  marzo 21 Giovedì calendario

SEBASTIANO MESSINA

Tutto cominciò con lo “scandalo petroli”. Era il 1974 e sui quotidiani del 14 febbraio la notizia del giorno era che il pretore Mario Almerighi aveva chiesto l’autorizzazione a procedere contro i segretari amministrativi dei quattro partiti di governo – Dc, Psi, Psdi e Pri – sostenendo di avere prove sufficienti a dimostrare che l’Enel e le compagnie petrolifere avevano versato al quadripartito “ingenti somme di denaro”. Tre settimane dopo, il presidente del Consiglio Mariano Rumor presentò le dimissioni (per quanto incredibile possa sembrare al giorno d’oggi, c’è stato anche in Italia un tempo in cui la scoperta di un caso di corruzione provocava la caduta del governo).
Mentre arrossivano per la vergogna di essere stati scoperti, i partiti si domandavano come avrebbero potuto rimpiazzare quell’inconfessabile sorgente di denaro. La risposta fu trovata rapidissimamente: con il finanziamento pubblico. Inattaccabile la motivazione: se vogliamo evitare la tentazione di farci corrompere, dobbiamo poter contare su un contributo alla luce del sole. La legge, stesa dal futuro segretario democristiano Flaminio Piccoli, fu approvata a tempo di record: in sedici giorni finì sulla Gazzetta Ufficiale.
Ebbe così inizio la lunga e non proprio limpida storia del finanziamento pubblico ai partiti. Con cifre, diciamolo subito, assai diverse da quelle di oggi. Nel 1976 alla Dc toccarono 5,1 miliardi di lire, e al Pci 4,6 miliardi. Briciole, se confrontate ai 57 milioni 974 mila euro (in lire: 112 miliardi 295 milioni) che il solo Partito democratico ha ricevuto nel 2011. Ma erano gli anni in cui tutti sapevano che i partiti stavano in piedi grazie ai finanziamenti sottobanco che arrivavano non solo dai petrolieri ma anche dai comunisti sovietici, e dunque ci fu davvero chi si illuse che quei soldi pubblici interrompessero il torbido fiume di denaro nero che alimentava la politica. Così il primo referendum abrogativo, nel 1978, fu bocciato: i Sì si fermarono al 44 per cento.
Poi però esplose Tangentopoli, e gli italiani non credettero più all’effetto moralizzatore di quei contributi miliardari. E nel 1993, con il secondo referendum promosso dai rasca
dicali, diedero una sberla ai partiti: l’abrogazione passò con il 90,3 per cento. Sembrava la fine della storia. E invece no. Abolito il “finanziamento pubblico”, nel 1993 i partiti si sono inventati i “rimborsi elettorali”: 1600 lire per italiano, e calcolando non i votanti e nemmeno gli elettori, ma tutti gli abitanti della penisola, inclusi i neonati.
Ed era solo la prima crepa nella diga del referendum, una crepa che tutti – esclusi i soliti radicali – hanno lavorato per allargare. Prima la beffa del 4 per mille, così imbarazzante
che non si è mai saputo quanti furono gli italiani a barrare quella casella. Poi l’aumento da 1600 a 4000 lire. Quindi, con l’euro, la conversione con raddoppio e generoso arrotondamento: da 4000 lire a 5 euro. Infine la clausola beffa che permetteva di continuare a incassare i contributi annuali per cinque anni, anche se la legislatura finiva al secondo.
C’è voluto un doppio scandalo, quello che ha investito prima il tesoriere della Margherita Luigi Lusi (sotto processo per essersi messo in ta-
25 milioni) e poi quello sulla gestione allegra dei fondi della Lega Nord che è costato la cadrega a Umberto Bossi per costringere i partiti a tagliare i rimborsi elettorali. E così il montepremi è sceso da 469 a 159 milioni.
Basterà, pensavano Bersani, Casini e Alfano. E invece no, perché altre cifre scandalose sono venute a galla, da Roma a Milano, rafforzando negli elettori la convinzione che nell’Italia degli esodati e dei nuovi poveri c’è ancora una casta che spende per i suoi vizi il denaro dei contribuenti.
Risposta canonica dei partiti: in tutta l’Europa si fa così. Certo, ma gli inglesi, per esempio, spendono molto meno (dodici volte di meno, per l’esattezza) e quei 12 milioni di euro li danno solo ai partiti d’opposizione. E in Germania, la nazione che si avvicina di più alle nostre cifre, i controlli sono rigorosissimi e chi viene scoperto a imbrogliare si fa cinque anni di carcere (se poi è il leader del partito ha chiuso con la politica, anche se si chiama Helmut Kohl).
Del resto, gli stessi rendiconti dei partiti hanno rivelato l’ipocrisia della dizione “rimborsi elettorali”, perché nel 2008 le spese reali per le campagne politiche sono risultate pari a un terzo (Pdl), un decimo (Pd) o addirittura un dodicesimo (Lega) del contributo ricevuto dallo Stato. E con gli altri soldi, cosa ci fanno? Il partito meglio organizzato, il Pd, nel 2011 ha speso quasi 13 milioni per il personale – 180 dipendenti, secondo un dossier preparato da Matteo Renzi – 25 milioni per “servizi” e “attività di propaganda”, 3,7 milioni per “altri costi operativi” (viaggi, alberghi, ristoranti eccetera) e 14 milioni per “contributi ad associazioni” (le strutture periferiche). Tutte spese che vengono pagate solo con i “rimborsi elettorali” (58 milioni) più 5 milioni e mezzo di “altre contribuzioni”, che vengono dai 1500 euro che ogni parlamentare versa ogni mese al partito. Punto e basta, perché il ricavato del tesseramento rimane in periferia.
Perciò, quando Grillo lo invita a fare come lui, rinunciando al finanziamento pubblico, Bersani sa che accettare quella sfida sarebbe, per il suo partito, una vera rivoluzione. Una
rivoluzione francescana.

PIERO IGNAZI

Apartire dagli Settanta, in tutta Europa sono stati adottate forme di finanziamento pubblico ai partiti politici. La Germania ha fatto da battistrada introducendo fin dal 1967 una legge sui partiti che definiva compiti, funzioni e modalità organizzative interne congruenti con i principi democratici, e collegava al rispetto di queste prescrizioni l’erogazione di generosi fondi statali. Con l’eccezione della Svizzera e, parzialmente, della Gran Bretagna, oggi i paesi europei finanziano, a vario titolo, i partiti politici. Come mai questo quasi unanime riconoscimento della opportunità di sostenere economicamente la vita dei partiti?
Sostanzialmente perché, ovunque e non solo in Italia, i partiti si sono profondamente trasformati. Negli anni d’oro della politica di massa – gli anni Cinquanta – i partiti reclutavano e mobilitavano ampi strati della popolazione e traevano da loro forza, legittimità e anche sostegno economico attraverso tanti piccoli contributi a cui se ne aggiungeva, eccezionalmente, qualcuno più sostanzioso. Le trasformazioni sociali e culturali dell’ultimo quarto del secolo scorso hanno ridotto la base di riferimento dei partiti e, di conseguenza, anche il flusso finanziario. Per questo i partiti si sono rivolti allo stato. Per poter mantenere in vita le loro organizzazioni avevano bisogno dell’intervento
pubblico. In linea generale i partiti godono di finanziamenti sia
diretti,
per la loro vita ordinaria e per le attività nelle istituzioni (rimborsi elettorali e contributi ai gruppi parlamentari e consiliari di vario livello), che
indiretti.
Questi ultimi comprendono la concessione gratuita di beni pubblici (dalle sedi per promuovere iniziative all’accesso ai media, dalle spese postali ai contributi per la stampa), l’erogazione di contributi “vincolati” a specifiche attività (come le fondazioni culturali tedesche attivate dalle varie forze politiche), e benefit fiscali di vario tipo.
La ragione di questa generosità “universale” sta nel riconoscimento della funzione tuttora essenziale dei partiti: essi sono considerati – e di conseguenza normati per legge in tanti paesi – come delle “agenzie pubbliche” che svolgono per conto dello stato la decisiva funzione di aggregare e articolare il consenso dei cittadini presentando candidati alle elezioni. Affinché i partiti svolgano al meglio questa funzione di interesse collettivo devono essere sostenuti, anche economicamente. Il punto dolente è come e quanto.
In Italia i rimborsi previsti della legge hanno raggiunto livelli iperbolici, generando sprechi, corruzione e, infine e giustamente, un’onda di protesta. Ma il rimedio non è l’eliminazione del finanziamento che lascerebbe in mano a pochi, ricchi
donors
e a potenti lobby una capacità di influenza esorbitante. La possibile soluzione, oltre ovviamente a maggiore parsimonia nei contributi pubblici, è quella del
controllo
delle spese e del loro
vincolo
a buone pratiche. Oggi i bilanci dei partiti sono più opachi di società
offshore
delle Cayman; non esiste un organo terzo autorevole che li esamini; non esistono sanzioni pesanti come la decadenza dalla carica se un eletto supera il tetto delle spese consentite e certificate, adottata in Francia; non esiste nessuna connessione tra contributi e modalità organizzative interne democratiche come in Germania. Il denaro non è “lo sterco del diavolo”: va utilizzato laicamente, adottando norme di stampo europeo che assicurino trasparenza e rispondenza dell’uso dei soldi ed anche della vita interna dei partiti.
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La soluzione non sta nell’abolizione, piuttosto bisogna limitare drasticamente le somme distribuite, introdurre controlli rigorosi e vincolare le spese a obiettivi di utilità civica e sociale

MARCO REVELLI
Personalmente credo che sarebbe una buona idea, per Pier Luigi Bersani, accettare di restituire quei 45 milioni di cosiddetti “rimborsi elettorali”. E un buon esercizio mentale, per tutti noi, provare a immaginare un drastico taglio dei “costi della politica”: non solo del finanziamento pubblico, ma in generale del flusso di denaro da cui i partiti politici sono diventati dipendenti, come un tossico dipende dalla propria droga. Credo infatti che il rapporto patologico tra politica e denaro sia diventato, oggi, una questione mortale per la nostra democrazia, sintomo e insieme causa della sua crisi.
Si dirà che quelle poche centinaia di milioni di euro di “rimborsi” sono una goccia nel mare del nostro gigantesco debito pubblico. Che la loro eliminazione non risolverebbe i nostri problemi economici. Ed è vero. Ma, intanto, occorrerebbe tener conto di tutte le voci che contribuiscono a formare il budget dei partiti, aggiungendo alla punta dell’iceberg del finanziamento diretto l’enorme massa di quello indiretto: i 250 milioni annui erogati a deputati e senatori; i circa 3 miliardi investiti annualmente per i centocinquantamila appartenenti agli organi rappresentativi regionali, provinciali e comunali, e gli altri 3 miliardi destinati allo sterminato esercito dei titolari di incarichi o consulenze per le amministrazioni pubbliche, reclutati in base alle rispettive
appartenenze partitiche; oltre ai 2 miliardi spesi per i 24mila membri di nomina politica delle circa settemila società partecipate. E poi, come in ogni buona analisi economica, bisognerebbe tener conto del trend, davvero esplosivo, del fenomeno: la campagna elettorale del 2008 è costata alle casse pubbliche dieci volte di più di quella del 1996!
Intendiamoci, la tendenza è generale, riguarda tutte le democrazie occidentali (anche se in Italia, come al solito, si manifesta in forma abnorme). Kennedy e Nixon, nel 1960, avevano speso rispettivamente 9,7 e 10,1 milioni di dollari; Obama e Romney, nel 2012, ne hanno investiti 2 miliardi… In Francia il finanziamento pubblico ai partiti è cresciuto, nel corso degli anni ’90, del cinquecento per cento. Nemmeno la sobria Germania si salva: nel 1959 il finanziamento diretto era di cinque milioni di marchi, alla vigilia dell’entrata nell’euro era salito a oltre trecento milioni, e si calcola che con quello indiretto oggi si giunga a circa un miliardo e mezzo di euro.
Ovunque la quantità di denaro necessaria ai partiti politici aumenta esponenzialmente, in proporzione diretta, potremmo dire, alla loro crisi di fiducia e alla difficoltà di procurarsi, con mezzi politici, il consenso necessario a svolgere il proprio ruolo di rappresentanza. Ciò che un tempo si producevano da sé – la fedeltà dei propri militanti e dei propri elettori, l’immagine pubblica connessa ai propri valori e alla propria cultura politica –, oggi se lo devono procurare sul mercato. Detto volgarmente, se lo devono comprare, pagando una pletora di seguaci-dipendenti, e acquistando di volta in volta, con operazioni di marketing, la propria immagine di fronte a un elettorato scettico e volubile. Così come l’economia reale si è finanziarizzata, producendo quello che Luciano Gallino ha definito il finanz-capitalismo, allo stesso modo la politica si monetarizza, in una sorta di finanz-democrazia.
Per questo i termini classici del dibattito sul finanziamento pubblico non valgono più: se un tempo esso serviva per liberare la politica da vincoli di mercato, oggi esso sancisce la riduzione della politica al mercato. La sua mercatizzazione. E vanno per questo motivo ripensati.