Attilio Bolzoni, la Repubblica 21/3/2013, 21 marzo 2013
ROMA — Con quella faccia da bravo ragazzo non sembrava neanche uno sbirro. Ma è diventato il numero 1 degli sbirri, il capo, quello che ha voluto traghettare tutti i suoi uomini da una polizia a volte un po’ losca a una polizia più evoluta, democratica, più amica dei cittadini
ROMA — Con quella faccia da bravo ragazzo non sembrava neanche uno sbirro. Ma è diventato il numero 1 degli sbirri, il capo, quello che ha voluto traghettare tutti i suoi uomini da una polizia a volte un po’ losca a una polizia più evoluta, democratica, più amica dei cittadini. Ci stava provando Antonio Manganelli, morto ieri mattina qui a Roma dopo un calvario durato anni. Mancherà quest’italiano dal tratto gentile e dalla compostezza di quei meridionali che vengono da un sud sprofondato nel tutto e nel niente — era nato ad Avellino il giorno dell’Immacolata del 1950 — mancherà soprattutto ai «suoi» il poliziotto delle indagini «perfette» (parole di Giovanni Falcone) e di un’umanità calda riconoscibile fra le pieghe di un’intelligenza elegante. Quella faccia da bravo ragazzo gli è servita per tutta la vita. Per conquistare amici e sconfiggere nemici, per primi i mafiosi. Qualcuno lo considerava troppo accorto, un mediatore perfino all’eccesso questo capo della polizia voluto sette anni fa con un vastissimo consenso bipartisan nonostante fosse indicato da tutti come l’ombra di Gianni De Gennaro, il suo predecessore chiamato «lo squalo». Molta strada l’hanno fatta insieme, ma non tutta. Il primo è rimasto sempre dentro un potere antico guardando indietro, Antonio Manganelli guardava solo avanti. Per cambiare. Aveva cominciato sulla strada, come tutti i veri poliziotti. Vicecommissario a Firenze alla «diurna e notturna», le volanti dell’epoca. Pronto intervento, risse, accoltellamenti, spacciatori. Venticinque anni appena compiuti, lavoro duro e ancora studio. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Napoli, la specializzazione in Criminologia a Modena. Senso del dovere, rispetto della gerarchia, fantasia investigativa. I suoi capi intuiscono subito che ha fiuto, è colto, ha facilità di entrare in contatto con le fonti. In Toscana sono gli anni dei sequestri di persona dell’Anonima Sarda, lui riesce a riportare tre o quattro rapiti a casa. A Roma, se ne accorgono. Gli chiedono di andare al Nucleo Anticrimine dove al vertice brilla già la nuova star della polizia italiana, un giovanissimo Gianni De Gennaro che stava iniziando la sua inarrestabile scalata. La coppia è una bomba atomica. E insieme ai due Alessandra Pansa, raffinatissimo investigatore anche lui. E Nicola Cavaliere, un altro della «squadra». Cominciano tutti insieme con la banda della Magliana. Ma poi — è già il 1984 — arrivano alla mafia siciliana. Con quella squadra, si rivoluziona l’indagine in Italia. «La svolta dell’antimafia siciliana è con loro», ha ricordato in più occasioni il presidente del Senato Pietro Grasso. Trent’anni fa, a Palermo. Falcone affida le sue indagini ai tre (De Gennaro, Manganelli e Pansa), si fida ciecamente di loro, fa fare tutti i riscontri alle confessioni di Tommaso Buscetta, usa i loro uffici — perché di altri sospetta — per interrogare il pentito. È Antonio Manganelli che scorta don Masino davanti alla corte del maxi processo, nella sua prima apparizione dentro la gigantesca aula dell’Ucciardone. Per noi giornalisti della vecchia guardia — che lo incontravamo ogni giorno davanti al bunker dell’ufficio istruzione — era un amico. Sempre leale. Con la sua amministrazione e con noi. Dopo l’avventura siciliana il Servizio di protezione testimoni, poi la Questura di Palermo. L’uomo si toglie l’abito da sbirro e organizza un meraviglioso Capodanno al teatro Politeama con Piero Chiambretti. È un abbraccio con una città difficile, a volte ostile. E dopo la Sicilia Napoli, dopo Napoli diventa vice dello «squalo». Di città in città con la bella moglie Adriana, la piccola e bellissima Manuela, prima con Alex e poi Leo, tutti e due bianchi come la neve, pastori svizzeri. La Sicilia e Napoli sono lontane quando — nel luglio del 2001 — la polizia si scatena al G8 di Genova e va in scena la «macelleria messicana » alla scuola Diaz. Il capo è De Gennaro, il suo braccio destro Manganelli è in vacanza all’isola d’Elba e ci resta. C’è un’emergenza nazionale, ma il poliziotto dai modi gentili prende distanze dai fatti di Genova. Con il suo stile, in silenzio. Quando si deve decidere la successione allo «squalo» — ci sono già 27 poliziotti imputati e altri 8 indagati per falsa testimonianza per Genova — qualcuno inizialmente storce il naso sul suo nome ma poi tutti fanno quadrato su di lui. Una fortuna per la polizia. Dirà molto tempo dopo Manganelli commentando la sentenza di condanne su Genova: «È il momento di chiedere scusa». I suoi lo adoravano. «Per tanti come me è sempre stato un faro, uno di noi, senza di lui mi sento un orfano », racconta uno dei poliziotti oggi più famosi in Italia che è cresciuto nel mito di quegli uomini che hanno spazzato via una sbirraglia borbonica. Poi sono venuti gli anni ministeriali. Ordine pubblico, politica, le sabbie mobili dei palazzi romani. E la malattia. Lunga, dolorissima. Prima la cura negli Usa (dove lui ha sempre avuto tanti amici all’Fbi e fra i Marshall, e dove ha fatto il capo della polizia per quasi un anno in videoconferenza da un ospedale), poi il ritorno a Roma. Sospetti, trame, lo scandalo del Corvo del Viminale. E la storia degli appalti sospetti, con il suo vicario Nicola Izzo che viene indagato. Manganelli fa una semplice difesa d’ufficio ma poi si rivolge all’opinione pubblica, schietto: «Con i conti non ci so fare ma non sono un imbroglione, da una vita faccio l’investigatore non il contabile». Rivendica se stesso, la sua onestà. Sta già molto male. Prima di lui se ne va Antonino Calderone, un boss che nel 1988 — attraverso la moglie — aveva deciso di affidare la sua vita nelle sue mani. Antonio Manganelli ha la forza di ricordarlo. Un’altra donna aveva convinto il suo uomo a saltare dall’altra parte della barricata. Si chiamava Rita Simoncini, era la compagna del corleonese Francesco Marino Mannoia. Voleva parlare solo con con lui. Si fidavano in tanti di Antonio Manganelli. FRANCESCO LA LICATA SULLA STAMPA È morto ieri mattina il capo della Polizia Antonio Manganelli: 62 anni, da febbraio era ricoverato all’Ospedale San Giovanni di Roma per la rimozione di un ematoma cerebrale. Profondo cordoglio è stato espresso dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano che parla di «uomo di alta professionalità e altissimo senso delle istituzioni», e tra gli altri anche dal premier Mario Monti Antonio Manganelli è stato uno dei poliziotti (non tantissimi) a cui va dato il merito di aver «defascistizzato» - scusate la parola desueta - la polizia italiana, a lungo condizionata da un ordine pubblico che nel dopoguerra risentiva dell’ossessione del «pericolo rosso». Per anni gli «sbirri» avevano abbandonato il dovere istituzionale delle inchieste antimafia e in difesa della «giovane costituzione repubblicana», per dedicarsi al contenimento dell’avanzata socialcomunista. Fino all’avvento di un gruppo di «sbirri diversi» che si gettarono a capofitto nelle grandi inchieste sul potere mafioso-politico, dopo il tramonto definitivo del terrorismo. Ecco, tra gli sbirri «diversi» (da Gianni De Gennaro ad Alessandro Pansa, a Nicola Cavaliere) Manganelli era considerato lo «sbirro gentile». Certo, per via del suo sorriso comunicativo ma anche per la sua estrema compostezza nell’affrontare anche le insidie più difficili. Mai al di sopra delle righe, mai un decibel in più del consentito, mai un atteggiamento di prevenzione neppure in direzione dei sospettati più compromessi. Seguiva le regole, Manganelli. Non forzava il codice non tentava il condizionamento del magistrato titolare di un’indagine. Fu Palermo, per sua pubblica ammissione, la scuola che lo formò. E quando si dice Palermo è da intendere la formidabile sinergia fra Giovanni Falcone e Gianni De Gennaro. Manganelli aveva poco più di 40 anni, trascorsi fra Criminalpol e Servizio centrale, ed era parte integrante dei «De Gennaro boys». La guerra contro Cosa nostra andò avanti: un latitante dopo l’altro. Quando lui e Pansa andarono a bussare sulla spalla del dormiente Nitto Santapaola, re della mafia catanese sorpreso in un casolare nelle campagne tra Catania e Siracusa, il boss si arrese e fece i complimenti raccomandando soltanto un trattamento rispettoso per la moglie. Raccomandazione superflua, perchè Antonio Manganelli la propria umanità la trasformava in una sorta di valore aggiunto. Nessuno dei boss ammanettati, fosse Piddu Madonia o Pietro Vernengo, ha potuto lamentarsi dello «sbirro gentile». Il grigio ministeriale e la cravatta sulla camicia bianca, questo preferiva alla pistola e alla forza. «Rappresentiamo lo Stato» amava dire, «abbiamo il dovere di distinguerci quanto più possibile da quelli che incateniamo». La sua nomina a questore di Palermo, all’inizio degli Anni Novanta, fu accolta come una conseguenza naturale per quello che era stato il suo impegno in Sicilia, dove - tra l’altro - aveva provveduto alla gestione di pentiti di prima grandezza: da Buscetta a Totuccio Contorno, da Leonardo Messina a Francesco Marino Mannoia. Anche con questi, atteggiamento umano ma distaccato, senza cedimenti nè ammiccamenti. Se lo ricordano in tanti, Manganelli che entra nell’aula bunker dell’Ucciardone - le gabbie degli imputati del maxiprocesso strapiene e mute - accanto a Tommaso Buscetta, quasi a voler plasticamente rappresentare che don Masino non era più quello di prima, che si era arreso allo Stato e meritava rispetto. Anche con Nino Calderone, pentito catanese, Manganelli instaurò un rapporto umano e professionale nello stesso tempo. Il boss, fratello del «segretario» della prima «cupola regionale» di Cosa nostra, era stato arrestato in Francia, dove si era rifugiato con la moglie e i figli. Proprio la moglie, Margherita, preparò il terreno per il pentimento del boss. Manganelli andò a Nizza e incontrò Calderone. «Lei è sposato, dottore?» fu la domanda del mafioso. Alla risposta negativa «zu Ninu» replicò: «Bene, allora faccia conto di avere, da questo momento, moglie e tre figli. Perchè io glieli affido». Calderone è stato, forse, l’unico mafioso che ha veramente cambiato pelle. È morto a gennaio, non prima di aver telefonato per l’ultima volta a Manganelli. Un rapporto bello e durevole, quello con Palermo. Da questore si sforzò di entrare nel cuore della città, come cittadino uguale a tutti gli altri. Aiutato da Adriana, splendida moglie, e da Manuela, figlia adolescente, ricordò alla borghesia come fosse possibile anche fare «cose buone». Fu il caso della nascita dell’Ismett (punto di eccellenza dei trapianti di fegato), voluta dal prof. Ignazio Marino che al Questore si rivolse per edificare una barriera protettiva attorno all’iniziativa che faceva gola a molti. Poi fu la volta della direzione del Servizio per la protezione dei pentiti. Manganelli traslocò a Roma, sempre seguito dalla famiglia e dal fido Alex, superbo lupo bianco, e risolse il problema riportando il Servizio protezione ai suoi compiti istituzionali. Proprio allora Manganelli dichiarò la necessità di togliere ai magistrati inquirenti la responsabilità sulla gestione e sulle necessità primarie dei collaboratori, per evitare il pericolo di scambio di favori tra pentiti e inquirenti. Propugnò la necessità che - come negli Usa - fosse un corpo speciale a gestire la sicurezza dei collaboratori. Fu frainteso, e sospettato di aver voluto ingraziarsi il ministro Maroni, e la maggioranza di governo avversaria del pentitismo. Fu nominato Capo della Polizia nel 2007, con l’accordo dei partiti di maggioranza e non. Era uscito indenne dalla catastrofe del G8 di Genova che costerà molto, in immagine, a Gianni De Gennaro e moltissimo, in senso stretto, a tanti funzionari (Gratteri e Caldarozzi su tutti) lanciati verso i vertici del Viminale. Non esitò - con correttezza istituzionale, cioè dopo la sentenza della Cassazione - a chiedere scusa pubblicamente per ciò che accadde a Genova. E stessa umiltà dimostrò in occasione della tragica fine del tifoso Gabriele Sandri, ucciso da un poliziotto. Disse alla commemorazione: «Porto il peso della responsabilità di quella morte». A Manganelli è stato contestato, un eccesso di trasporto verso il ministro leghista e un atteggiamento morbido in occasione dello scandalo sul «Corvo» del Viminale che ha portato alla sostituzione di Nicola Izzo, uno dei suoi vice, oggi indagato. «Nessuna assoluzione preventiva - spiegò Manganelli - ma neppure nessuna condanna sommaria. Saranno i magistrati a stabilire se ci sono colpe o no in una vicenda dove girano parecchi soldi che rendono impalbabile ogni verità». Poliziotto gentile, appunto. "IL RAPPORTO CON PALERMO"