Elena Dusi e Stefano Bartezzaghi, Repubblica 21/3/2013, 21 marzo 2013
Aiuto, i nostri romanzi hanno perso le emozioni ELENA DUSI ROMA Lo “spirito del tempo” è ineffabile per definizione
Aiuto, i nostri romanzi hanno perso le emozioni ELENA DUSI ROMA Lo “spirito del tempo” è ineffabile per definizione. Ma un motore di ricerca - anche in questo - può essere d’aiuto. Prendiamo Google e i cinque milioni di libri pubblicati tra il 1900 e il 2000 che sono stati digitalizzati e riposano nella sua pancia. In questi 500 miliardi di parole, nel corso del secolo, le espressioni legate alle emozioni sono diventate sempre più rare. I libri che trasudano sentimento non mancano certo, eppure pochi di noi esiterebbero a definire il nostro “spirito del tempo” come orientato verso un progressivo inaridimento. Le galassie di parole legate a rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa sono diventate sempre più rare nei nostri libri. Lo ha calcolato un gruppo di antropologi e informatici coordinato dall’università di Bristol. A resistere è solo la paura. La presenza della più ancestrale fra le nostre emozioni è scesa nel corso del secolo, ma si è ripresa dagli anni ’80. E la curva della gioia - si legge nello studio uscito oggi sulla rivista Plos One - segue un andamento sorprendentemente vicino agli avvenimenti storici del ’900. Le espressioni di felicità in letteratura aumentano nei primi due decenni del secolo per poi inabissarsi con la Grande Depressione e l’arrivo delle dittature fino al conflitto. Il dopoguerra segna una ripresa, annullata negli anni ’70. Al ritorno di un certo ottimismo si assiste dagli anni ’80 al 2000. «Abbiamo fotografato un andamento. Non ci azzardiamo a dare interpretazioni» spiega Alberto Acerbi, antropologo all’università di Bristol e coordinatore dello studio. «Le parole che esprimono emozioni hanno subito un calo eclatante. I dati sono nitidi, specialmente in corrispondenza degli eventi storici. Ma per legare le nostre osservazioni all’emergere di correnti letterarie avremmo bisogno dell’aiuto degli esperti». Lo studio è limitato ai libri pubblicati in inglese. Per quanto riguarda l’Italia, il linguista Tullio De Mauro ha un’impressione diversa. «Studiare la frequenza del- l’uso delle parole può aiutarci a capire come varia una cultura. Ma se dovessi dare un giudizio sulla lingua italiana, direi che è sempre più ricca di espressioni legate a sentimenti e di termini astratti. Crescono in maniera sorprendente le parole emotive e volgari insieme. L’“Antilingua” descritta da Italo Calvino (l’italiano astratto e vuoto parlato dal brigadiere) ha preso il sopravvento sulla lingua concreta del portiere. È come se chi scrive in italiano fosse preda di una sorta di “terrore semantico”». Scavando in quella zuppa di parole che Google ha riversato nel suo database (i libri, pari al 4per cento di tutti i volumi stampati nella storia, sono stati digitalizzati, ma non sono leggibili e l’elenco dei titoli è segreto per non violare i diritti d’autore), è emerso anche che la letteratura americana resta più emotiva rispetto a quella british. «Mentre in Gran Bretagna andavano le storie di spionaggio di Le Carré e Fleming, gli Usa avevano Vonnegut e Vidal » spiega Acerbi. In passato con metodi simili si era visto che l’“umore” degli utenti di Twitter può essere usato per prevedere la borsa o i risultati elettorali. Che diventare famosi oggi è molto più facile rispetto a un secolo fa, ma la popolarità ha durata brevissima. Che Dio non è morto, ma appare un terzo delle volte nei nostri libri rispetto al 1850 e che le canzoni rock americane dagli anni ’80 usano spesso la parola “io”, poco il “noi” e sono sempre più ricche di “odio”, “uccidere” e “vaffanculo”. Lo spirito del tempo, chiaramente. STEFANO BARTEZZAGHI «Scusa ma ti chiamo amore». È all’amore medesimo che lo scrittore Federico Moccia in persona dovrebbe rivolgere ora la sua famosa battuta di dialogo. Questo almeno a dar retta allo studio, appena apparso, che un pool guidato dall’antropologo Alberto Acerbi (Università di Bristol) ha condotto su romanzi inglesi e americani del Novecento, contenuti in un database di 5 milioni di volumi digitalizzati da Google. La ricerca riguarda infatti la frequenza di parecchie centinaia di parole che si riferiscono a sei categorie di stati d’animo: rabbia, disgusto, paura, felicità, tristezza, sorpresa (colpisce l’assenza della noia). Nel corso del Novecento, contro quanto forse ci si poteva aspettare, le ricorrenze di tali parole diminuiscono sensibilmente. Eppure oggi tutto, e specialmente la letteratura, parla di emozioni, e di quel loro modo di propagarsi pressoché spontaneamente per il quale abbiamo adottato l’equivoca nozione di “empatia”. Possibile che Moccia sia in controtendenza? Se escludiamo che nel decennio che ci separa dalla fine del Novecento la letteratura abbia radicalmente cambiato la sua rotta, si tratta di capire se siano sbagliate le nostre impressioni di lettori o se nei calcoli dello studio ci sia qualcosa che non va. Senza addentrarsi nella composizione del corpus dei romanzi e nella classificazione delle parole censite dalla ricerca, si può certo dire che tutti i tentativi di sottoporre il linguaggio e la letteratura a un approccio quantitativo un rischio di eccessiva riduzione lo fanno correre. Si può essere esatti solo su ciò che si può computare, e nel linguaggio computare tutto non si può. Le parole si possono conteggiare; almeno per ora le metafore e le metonimie vivono in nascondigli da cui l’algoritmo non riesce a stanarle. Dire d’amore, rabbia, sconcerto o schifo infatti non implica necessariamente dire “amore”, “rabbia”, “sconcerto”, “schifo”. In letteratura, men che meno. L’ormai annoso precetto stilistico “show, don’t tell” (invece che dire, mostra) basterebbe allora a spiegare il calo delle parole che si riferiscono direttamente ai sentimenti. «Vi mostrerò la paura in una manciata di terra», scriveva T.S. Eliot. E si sa che d’amore parlano specialmente i tùlipan. Ma è anche vero che la curva delle frequenze conosce una piccola ripresa verso l’anno Duemila. In effetti tutte le attuali poetiche della sincerità, dell’esibizione di passioni e patemi, gioie e dolori non vanno tanto per il sottile e per il mass-marketing relativo i seguaci di Eliot costituiscono una nicchia poco interessante. Un’analoga ricerca sui nostri anni potrebbe magari convincerci che il precetto dell’epoca è: “Tell, don’t show”. Ma continuerebbe a essere più utile per l’informatica che per la comprensione della letteratura. Le tendenze di quest’ultima sono spiegate meglio dalla lettura che dalla digitalizzazione, dalla comprensione che dall’aggregazione di dati. Anche perché quando si è detto che Achille era irato e Otello geloso non ci si è avvicinati neppure di un centimetro a quanto, di loro e di noi, hanno saputo dirci Omero e Shakespeare.