Marco Romani, il Venerdì 22/2/2013, 22 febbraio 2013
SILVIA FENDI ALLA FONTANA DI TREVI DIAMO UNA NUOVA DOLCE VITA
ROMA. «Quando vedo qualcuno che butta la carta per terra divento pazza. La raccolgo, ma non sto mica zitta. Sono stufa di lasciare andare questo Paese. Stufa dell’abitudine alla maleducazione, stufa dell’incuria, del lasciar correre. Non voglio più accettare queste cose». Quello di Silvia Venturini Fendi non è uno sfogo fine a se stesso. E per dimostrare che alle parole seguono i fatti, con la maison che porta il suo nome (anche se dal 2000 la proprietà è del gruppo del lusso francese Lvmh) ha appena stanziato circa due milioni e mezzo di euro per il restauro della Fontana di Trevi, a cui va gran parte del contributo, e del complesso delle Quattro Fontane, sempre a Roma.
A differenza di molte aziende che in cambio di denaro chiedono di poter innalzare megacartelloni pubblicitari sui cantieri, quello di Fendi però è un atto di mecenatismo. «Dal Comune» dice la stilista «non vogliamo nulla in cambio. Vicino alla Fontana di Trevi, e solo per quattro anni, ci sarà una piccola targa che spiega che il restauro è stato possibile grazie alla maison. Basta così». Il lavoro dovrebbe durare venti mesi dall’assegnazione della gara d’appalto, dopo di che il monumento più fotografato di Roma ritroverà dopo anni quello splendore immortalato in tante tele e da Federico Fellini nella Dolce vita.
In Italia sono tanti i monumenti che, lasciati all’incuria per miopia o per mancanza di fondi, avrebbero bisogno di seri interventi di restauro. Perché proprio la Fontana di Trevi?
«Le ragioni sono tante, legate alla memoria dell’azienda e a quella mia personale. Fendi è nata a Roma e in questa città, da quando nonno Edoardo e nonna Adele aprirono nel 1925 il primo negozio in via del Plebiscito, abbiamo trovato l’ispirazione per le nostre collezioni. Quindi era naturale pensare al restauro di un monumento capitolino. La Fontana di Trevi, poi, è uno dei simboli più amati dai cittadini e dai turisti. Quando ci passo davanti mi sento felice perché è un inno all’acqua, che è il simbolo del rinnovamento. È questo è sempre stato anche lo spirito di Fendi».
Tutte le griffe sostengono di essere i portabandiera del rinnovamento...
«Per Fendi però non sono io a dirlo, parlano i fatti. I miei nonni prima, mia madre e le mie zie poi, e noi ora abbiamo sempre creato collezioni controverse. Quando le pellicce erano il simbolo di una borghesia che voleva dimostrare il suo potere sociale, noi le abbiamo destrutturate, ridotte in strisce finissime, rivoltate mettendo in mostra la parte considerata meno nobile. Siamo stati anche i primi a fare pellicce sintetiche... Ecco, anche questo è lo spirito romano: ne abbiamo viste talmente tante che niente ci spaventa».
Tutto cambia, ma Karl Lagerfeld resta.
«Credo che il nostro sia il sodalizio più lungo della storia della moda. È iniziato nel 1965 e lui è ancora il nostro direttore creativo delle collezioni donna. E ha impresso al marchio quello spirito di rinnovamento di cui parlavo prima. Lui sa guardare solo avanti, il passato non lo interessa. Se gli chiedi di rifare un abito di una sfilata precendente è il momento che si arrabbia e crea qualcosa di completamente diverso».
In un momento di crisi il settore del lusso è in costante crescita. Qualche senso di colpa?
«No, perché lusso non è sinonimo di effimero, ma di grande qualità. Significa artigianato, posti di lavoro, grande cultura. La moda, per parlare del settore che conosco meglio, non è solo un atto di consumo, ma lo specchio dell’evoluzione sociale. Il nostro comparto rappresenta una delle voci più importanti del bilancio italiano, ma la politica fa finta di non accorgersene».
Cosa dovrebbe fare?
«In Francia un ministro della cultura come; Jack Lang era sempre seduto in prima fila alle sfilate perché capiva che quello era il momento culminante del lavoro di un settore industriale che produce ricchezza al Paese. Da noi, tranne rarissime eccezioni, i politici stanno alla larga dalle passerelle. La moda non è uno stilista che scende da uno yacht, ma un sistema fatto da migliaia di persone che danno il meglio di loro stesse e che hanno costruito negli anni un marchio importante che si chiama made in Italy».
Che si può fare per valorizzarlo?
«Tante cose. Per insegnare ai giovani il valore culturale di questo settore si potrebbe cominciare a inserire qualche ora di storia del costume a scuola. E poi è arrivato il momento di pensare seriamente alla costruzione di un museo nazionale della moda. Sono certa che molti dei nostri marchi storici sarebbero ben lieti di affidare parte dei loro archivi a un’istituzione che li valorizzasse».
A Roma o a Milano?
«Non è importante. A Roma, dove la moda è nata, potrebbe contare su un numero maggiore di turisti. Milano, però, è la capitale contemporanea della moda. Andrebbe bene anche Firenze, dove fu organizzata la prima sfilata».
Se non si riesce nemmeno a restaurare la Fontana di Trevi senza il sostegno di un mecenate, secondo lei è il momento chiedere investimenti su un nuovo museo?
«Se un’amministrazione comunale mettesse a disposizione un’area di pregio adeguata sono sicura che il sistema moda italiano sarebbe pronto a fare la sua parte, sovvenzionando la costruzione dell’opera».
Siamo sotto elezioni. Cosa chiede al nuovo governo sia come stilista che come presidente di AltaRoma?
«Di fare in modo che i giovani abbiano un più facile accesso al credito e che possano aprire i loro spazi senza passare per quella trafila burocratica che ammazza ogni iniziativa. A Londra per aprire un’attività basta un’autocertificazione e non c’è bisogno di assumere un consulente. Poi pero se non paghi le tasse non la passi liscia. Ecco mi sembra un buon modello da seguire».
A proposito di giovani, come si cresce con un cognome che è un logo?
«È meno facile di come sembra, perché tutti danno per scontato che sei in quella posizione non per merito ma per "diritto" ereditario. Il fatto che, dopo il passaggio della proprietà a Lvmh, io sia stata nominata direttore creativo degli accessori e delle altre linee dovrebbe aver fugato anche il più piccolo dubbio».
Quando è cominciata la sua carriera in azienda?
«Da sempre. Non amavo molto studiare e appena avevo un attimo libero correvo nei laboratori dove mia nonna Adele mi faceva raccogliere le spille cadute per terra con una calamità e mi faceva stirare la carta che riciclavamo per dare forma alle borse. Ho fatto i pacchetti a Natale, ho servito i clienti in negozio, sono stata al centralino e al telex. Poi, quando ero un po’ più grande sono partita per Los Angeles per occuparmi delle celebrity».
Poi ha cominciato a disegnare borse e nel 1997 è nata la Baguette, una delle icone del marchio. Milioni di pezzi venduti per un accessorio che, per le dimensioni ridotte, sembra contraddire la sua funzione.
«La Baguette è un atto di disobbedienza. In quegli anni erano molto in voga le borse minimal, grandi come zaini e realizzate in nylon. Avevano chiesto anche a me un accessorio di quel tipo. Quando mi sono presentata con il prototipo - in tessuto nero per dare l’effetto minimal - hanno tutti sgranato gli occhi».
E come ha fatto a far passare il progetto?
«Ho usato una parola che in quegli anni sembrava magica: ergonomica. Ho spiegato che per la sua forma e le sue dimensioni la Baguette si adattava al corpo e che questo poteva essere un successo. A mia madre e alle mie zie ho poi detto: voi avete rivoluzionato alcuni concetti della pellicceria e della moda. Proviamoci ancora. Le ho convinte. Da allora ne abbiamo realizzate più di mille diverse versioni».
Quando parla di sua nonna che stirava la carta e delle sue zie che in un mondo di maschi hanno creato un impero le si illuminano gli occhi. Che effetto le fa entrare tutte le mattine in un’azienda che ha il suo cognome ma che è di proprietà francese?
«Quell’operazione oltre ad aver internazionalizzato l’azienda ci ha reso più italiani di prima. Lvmh, che possiede tanti marchi, tende a valorizzare il dna di ognuno di essi facendo in modo che resti ancorato alle sue origini territoriali e culturali. Tutte le linee Fendi sono prodotte in Italia e il centro stile è a Roma, dove il marchio è nato 86 anni fa. E la cosa bella è che, nonostante oggi siamo tanti, il clima resta molto familiare, come lo aveva voluto mia nonna».
Che effetto le fa vedere borse Fendi false agli angoli delle strade?
«Ci sto male. Bisognerebbe far capire alla gente che i soldi di una borsa contraffatta non vanno all’immigrato che te la sta vendendo, ma alla criminalità organizzata che gestisce il traffico. Vedere la doppia F, ovvero la storia della mia famiglia, accostata a questo sottobosco di malaffare è un dolore fortissimo».
Marco Romani