Paolo Guzzanti, il Giornale 19/3/2013, 19 marzo 2013
ADDIO AL MITO DI SUPERMARIO ORA E’ LA BRUTTA COPIA DI FINI
Mario Monti si è incartato. Che peccato, un uomo di tanto e persino eccessivo talento. Ieri mattina ha dato un’intervista a Marcello Sorgi per la Stampa e ha detto una cosa bizzarra: «Se non avessi preso tre milioni di voti, avrebbe vinto Berlusconi». Formidabile: forse dimentica che tutta la sua operazione politica è consistita nel prosciugare per intero l’elettorato dell’Udc di Casini e quello minuscolo del Fli di Fini, senza aggiungere che pochi spiccioli. E poi: davvero può essere così contento di aver impedito la vittoria di Berlusconi? Nella stessa intervista manifesta il suo orrore per i barbari a cinque stelle che promettono di riportarci al medioevo e supplica Bersani di resistere al grillismo. E allora? Che gioco fa? Secondo Lorenzo Dellai, candidato centrista alla presidenza della Camera, Monti fa soltanto il suo gioco, un gioco personale, individuale e non di squadra.
Monti è inviperito con Napolitano (di cui mostra gli sms sul telefonino creando un certo imbarazzo) perché quello gli ha sbarrato la strada alla presidenza del Senato, arrivando a dire che persino gli argomenti giuridici addotti dal capo dello Stato sono sbagliati. Quando entrò in politica tutti lo avvertirono che così facendo si giocava il Quirinale, ma come un maldestro giocatore di poker pensava di avere ancora una scala reale in mano prevedendo per se stesso un oceanico consenso elettorale. Poi è andata come è andata, riducendo Fini e Casini come due zombi, il primo addirittura non rieletto deputato. I suoi adesso lo accusano di «fare come Fini» e cioè di voler tenere i piedi in tutte le staffe, fino a cadere disarcionato. Le foto lo mostrano perplesso, ma si direbbe piuttosto immerso nel solipsistico pensiero di se stesso pensante, lo sguardo perduto e un senso di disagio fra tutta quella gente in gran parte sconosciuta e dalla laurea dubbia che si affolla intorno a lui. Certo, è vero che in passato ha rifiutato incarichi importanti, a cominciare dalla presidenza del Consiglio dopo il rovesciamento del primo governo Berlusconi. E poi altri rifiuti governativi importanti per gli Esteri e l’Economia. Ma l’impressione che offre di sé è tutt’altro che quella di un uomo schivo e distante dall’amore per le alte cariche. Al contrario, sembra proprio un giocatore che sa di avere un bel pacco di fiche in tasca e cerca soltanto il tavolo adatto per far saltare il banco: baccarat o blackjack, Senato o Quirinale, al diavolo tutti gli altri.
Anche Casini, ripescato miracolosamente al Senato come l’ultimo esemplare di un mondo che fu, proprio lui che si è suicidato e che ha suicidato il suo partito al grido di «Con Monti sempre e ovunque fino alla morte, specialmente alla morte» adesso si è un po’ scocciato e dice senza mezzi termini che l’ultimo Monti gli sembra Mastella. Anzi, ha inventato il neologismo «Mastellismo di ritorno», che non è edificante. Tutti gli orologi dei componenti di «Scelta Civica» si sono fermati durante la tessitura della trama per la presidenza del Senato e della Camera, e quando sono tornati a ticchettare segnavano tutti un’ora diversa. I gruppi sono spaccati, le votazioni per il capogruppo sono diventate terreno di giochi e giochetti da Prima Repubblica. La scollatura fra Monti e i suoi, che vengono da esperienze spesso diversissime, sta sgretolando i gruppi e questo accade perché un po’ tutti hanno la sensazione che ormai il divo bocconiano pensi soltanto agli affari suoi, alle poltrone sue e al suo metafisico cursus honorum. Ed è questo l’elemento che lo fa accostare sempre più a Gianfranco Fini, che non mollò la cadrega della presidenza della Camera anziché dedicarsi a costruire il suo fatiscente partito, finendo com’è finito. Come conseguenza la gente comincia a sparire o a defilarsi. Tutti hanno notato come il ministro Andrea Riccardi, benché presidente del comitato direttivo, abbia approfittato di questi giorni per dedicarsi anima e corpo al nuovo Papa, staccando la spina che lo teneva unito al premier.
Insomma, spiace dirlo (e a me spiace davvero perché sono stato anche in Parlamento un leale sostenitore di Monti) ma il patrimonio divino e divinizzante dell’uomo della Bocconi sta svanendo nel nulla e decadendo nella farsa triste. Il risultato del resto di tanta operosità nel tessere piccole trame politiche è ormai sotto gli occhi di tutti: molto difficilmente Monti salirà al Quirinale, certamente non tornerà a Palazzo Chigi (o vi resterà ibernato nella camicia di forza della strategia di Grillo), non è diventato presidente del Senato e resterà lì a scambiarsi sms con Napolitano, da mostrare orgogliosamente ai suoi come ultima soddisfazione.