Paolo Panerai, ItaliaOggi 16/3/2013, 16 marzo 2013
ORSI & TORI – È il capo della prima banca italiana (e non un propagandista dell’anti-europeismo) che parla in una intervista esclusiva di pochi giorni fa a Class Cnbc
ORSI & TORI – È il capo della prima banca italiana (e non un propagandista dell’anti-europeismo) che parla in una intervista esclusiva di pochi giorni fa a Class Cnbc. Sostiene Enrico Cucchiani, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo: «È evidente che stiamo attraversando un momento di incertezza politica, ma a nessuno dovrebbe sfuggire che l’Italia possiede importanti punti di forza che prescindono dallo scenario politico. Gli indicatori macro dell’Italia sono molto robusti, si raffrontano positivamente rispetto a Paesi come gli Usa e il Giappone e sono in linea, e spesso migliori, di quelli europei. C’è solo un indicatore negativo che è il rapporto del debito pubblico sul Pil, che non possiamo sottovalutare, ma se analizziamo il debito complessivo sul Pil, cioè anche quello dei privati e delle aziende, siamo in linea con l’Europa e in realtà messi meglio di Usa e Giappone. Il rapporto tra la ricchezza e il Pil in Italia si colloca in una posizione privilegiata (5 mila miliardi di patrimonio contro i 2 mila del debito, indicano varie stime); se osserviamo il deficit di bilancio, anch’esso è molto contenuto, in percentuale meno di 1/3 rispetto agli Usa, circa 1/4 rispetto a quello del Giappone, assolutamente al di sotto della media europea. E l’Italia ha un surplus primario cioè prima degli interessi, come solo la Germania ha; gli indicatori economici quindi sono positivi. Il tessuto industriale è molto importante, quindi i mercati non dovrebbero non tener conto di questi fattori positivi. L’incertezza politica rischia di vanificare quanto questi aspetti sostanziali lasciano intravedere e soprattutto rischia di rallentare i tempi secondo i quali può essere pienamente sfruttato il potenziale del nostro paese». Detto in due parole L’Italia c’è, come questo giornale e gli altri media di Class Editori sostengono da quando esplose nel 2011 l’attacco al debito italiano con le dimissioni del governo Berlusconi e l’avvento dei tecnici di Mario Monti. Non si può quindi accettare passivamente che una politica miope come quella della Germania, tutta indirizzata solo al rigore, crei nel Paese milioni di poveri e di disoccupati, che si sommano e spesso non si sovrappongono. È giunto il momento di dire basta con la depressione, sia come sia la vicenda del governo, sia quale sia il governo. E nel Paese questa voglia di riscatto sta riemergendo. Parlando con grandi e piccoli imprenditori, con economisti e manager si percepisce che qualcosa di rilevante sta per accadere. Perfino da parte dei banchieri, come dimostra la protesta del più tecnico dei banchieri italiani, Pier Francesco Saviotti, nella riunione periodica con la Banca d’Italia, come questo giornale ha rivelato nel numero di una settimana fa, nel silenzio assordante che ne è seguito da parte degli altri media. Ci siamo già scusati e rinnoviamo le scuse all’amministratore delegato di Banco Popolare per questa rivelazione. È naturale che un uomo cresciuto alla disciplina della Comit non abbia piacere di finire sui giornale per prese di posizioni dure, in riunioni riservate. Ma sono stati proprio i suoi colleghi, meno coraggiosi di lui ma totalmente solidali con lui, che hanno fatto emergere a Roma la notizia. Tutti gli italiani devono essere grati a Saviotti per la posizione che ha manifestato contro un rigore eccessivo verso le banche commerciali da parte della banca centrale italiana. Evidentemente anche un uomo del livello del governatore Ignazio Visco, fra l’altro allievo di Federico Caffè e quindi fondamentalmente keynesiano, si è fatto prendere dal timore che l’Empasse politico possa riaccendere la speculazione. Ecco perché nel Paese sta rapidamente diffondendosi l’idea di una reazione forte. In primo luogo rispetto a una delle più clamorose ipocrisie da cui le aziende italiane sono sempre più soffocate. Il mondo intero sa che lo Stato italiano e gli enti locali non hanno solo 2 mila miliardi di debiti contabilizzati da Eurostat ma anche altri 90 miliardi di euro di debiti nei confronti di aziende e famiglie. Per mesi, che diventano anni, prima Giulio Tremonti e poi Mario Monti non hanno avuto il coraggio di affrontare il toro per le corna a Bruxelles e dire chiaro che se l’Italia non paga quei debiti, decine o centinaia di migliaia di aziende chiudono e sempre più chiuderanno; che quindi quella ipocrisia va sconfitta stabilendo che i titoli di Stato della serie speciale per pagare i 90 miliardi non cambiano assolutamente la realtà dell’indebitamento del paese; se non sono stati ricontabilizzati finora, tenendo più basso il rapporto debito/pil, che si continui a non contabilizzarli. La soluzione tecnica è stata suggerita fin dal settembre del 2011 dall’ex ragioniere generale dello Stato, professor Andrea Monorchio, e dall’ex dirigente della commissione Bilancio del Senato, Guido Salerno Aletta: appunto il pagamento con titoli di stato di serie speciale, non negoziabili, cioè non cedibili, a 20 anni, con un interesse dell’1,5%; una volta che li abbiano ricevuti, le aziende potranno scontarli presso le banche a un tasso minimo, di poco superiore all’1,5%. In questa maniera entrerebbero subito nel sistema 90 miliardi, ma in realtà altra liquidità potrebbero ottenere le banche italiane riscontando quei titoli presso la Bce. La tecnica e la fantasia possono suggerire molte altre soluzioni, ma questa asfissiante, letale ipocrisia deve finire. E in effetti, non solo per le richieste della Confin-dustria, molti si aspettavano che nel Consiglio europeo di pochi giorni fa, il presidente Monti affrontasse di petto la questione. Specialmente ora che, con una trasformazione copernichiana, ha finalmente capito che senza un allentamento dei cordoni, il Paese si avviterà sempre di più verso una recessione profondissima, nonostante gli ottimi fondamentali. Monti non ha posto il problema; si è limitato a chiedere che i capitali impiegati per fare investimenti pubblici non vengano contabilizzati ai fini del limite del 3% del deficit dello Stato, che per altro nessun Stato europeo rispetta. Un passo avanti, che ha ottenuto anche l’ok della Merkel, ma che non basta assolutamente. Occorre che le aziende vengano pagate e simultaneamente in modo che un’ondata di liquidità produca un effetto forte sul sistema. Se ciò avvenisse, ci sono imprenditori con bilanci in significativo utile, perché operano sui mercati esteri, che sono pronti ad accompagnare questa azione per arrestare la spirale perversa da cui il Paese è soffocato. Qualcuno sta pensando di destinare parte dell’utile all’aiuto delle aziende e delle famiglie più in difficoltà soprattutto sul territorio, perché gli italiani si scrollino di dosso la cappa di paura per cui anche chi ha soldi (e in Italia abbondano) non spende più, aggravando inevitabilmente la recessione e facendo salire la disoccupazione. Altri imprenditori, sempre con bilanci in forte utile (i dati complessivi delle società quotate in borsa segnalano una crescita dei profitti, come documenta l’inchiesta di MF-Milano Finanza), stanno pensando a fondi di investimento per intervenire sulle aziende in maggiore difficoltà ma sane dal punto di vista industriale. La Federazione degli editori e gli associati all’Upa (utenti pubblicitari) stanno finalmente operando sulla proposta già lanciata da questo giornale e gli altri media di Class Editori per una defiscalizzazione degli investimenti pubblicitari, sul modello della legge che ha rilanciato la produzione cinematografica. Se non torna a crescere l’investimento pubblicitario in Italia, infatti, non riprenderanno neppure i consumi. L’idea della Rai di rilanciare Carosello è una buona idea, ma la Rai dovrebbe riuscire a organizzarsi per avere bilanci positivi anche solo con il canone televisivo, che è a tutti gli effetti una tassa. Tutto ciò potrà reinnestare un ciclo nuovo, anche approfittando dei segni di ripresa significativa in Usa e Gaippone, con la conferma di una crescita sostenuta da parte della Cina. Ma anche questo non basta. Come ha capito bene Massimo D’Alema e come ha confermato il banchiere Cucchiani, l’Italia deve normalizzare il suo rapporto debito/Pil tagliando il debito con la vendita di asset immobiliari e con il taglio della spesa improduttiva. Non solo per diventare a quel punto il Paese europeo di gran lunga più virtuoso dopo l’esasperata ed egoista Germania, ma per risparmiare interessi sul debito, liberando risorse sia per investimenti pubblici che per una significativa riduzione della pressione fiscale, dopo la scoperta amara e l’outing del Fondo monetario internazionale, che ha ammesso (a differenza di Monti, il quale non si è esplicitamente ricreduto) che un punto di aumento della pressione fiscale genera non mezzo ma ben due punti di recessione. Sono queste ore decisive non solo per la nomina dei presidenti delle Camere ma ancor di più per sapere se ci sarà un governo solido, un governo precario o un governo per solo qualche mese. Ma chiunque sarà il presidente del Consiglio, deve mettersi bene in testa che l’Italia c’è, e che la vera ribellione non è incarnata nel vasto consenso ottenuto da Beppe Grillo, ma quella che sta montando nel Paese contro la scelta di rinuncia che la politica depressiva ha generato. E per fortuna che sta montando questa ribellione, perché è l’unica che può evitare l’imminente protesta di piazza, con gli scontri sociali che può portare con se’. Solo provvedimenti che risollevino lo spirito degli italiani, che ridiano sicurezza alla loro forza e anche alle vaste risorse di cui il paese dispone, può evitare una stagione pericolosa che rievoca i fantasmi del passato. A Bruxelles, nella commissione esecutiva e nel Consiglio europeo più che chiacchiere non si fanno. Parole, parole dedicate alla ripresa e poi si approva un bilancio europeo del quale, senza vergognarsi, gli eurocrati, compreso Monti, si sono dichiarati soddisfatti. Nel caso specifico, Monti si era dichiarato tale perché era migliorato il rapporto fra contributi versati dall’Italia e finanziamenti di ritorno, senza sottolineare che la spesa totale europea, per compiacere la Germania, è diminuita. Anche uno studente del primo anno della Bocconi sa che quando si riduce la spesa, se non è spesa improduttiva, in una fase di recessione non si fa altro che accentuare i vortici della spirale perversa. Ma appunto a Bruxelles ci sono gli eurocrati dominati dalla Germania. Governanti non eletti democraticamente ma scelti dalle clientele dei governi, sui quali domina quello tedesco. La riprova della mancanza di democrazia che regna a Bruxelles è quanto, per fortuna, sta succedendo a Strasburgo, dove il Parlamento europeo ha respinto il bilancio approvato dal Consiglio europeo sia perché non tiene conto delle esigenze di una politica espansiva per sconfiggere la recessione, sia perché non prevede la possibilità di acquisire risorse dirette per l’ Unione europea ma solo fondi girati dagli Stati membri. Nel Parlamento europeo, direttamente eletto da oltre 380 milioni di cittadini, per fortuna la consapevolezza della gravità della crisi è maggiore che negli organi esecutivi, e al suo interno il potere della Germania è assai minore che nella Commis-sione e nel Consiglio, essendo i cittadini tedeschi, per quanto oltre 80 milioni, minoranza rispetto alla totalità della popolazione europea. È su questa diversità fra gli eurocrati di Bruxelles e gli eurodeputati di Strasburgo, anche se si riuniscono talvolta a Bruxelles, che conta l’azione intrapresa da un profondo conoscitore del diritto come il professor Giuseppe Guarino, ex ministro ma soprattutto ex consulente in diritto amministrativo di tutti i governi italiani che hanno voluto compiere atti corretti secondo le norme e inattaccabili. Nonostante l’età, Guarino conserva una lucidità unica, che lo aveva fatto essere uno degli uomini più stimati, per esempio, da Guido Carli. Quando l’ex governatore della Banca d’Italia, come ministro del Tesoro, si trovò a dover firmare il Trattato di Maastricht, più volte ascoltò il parere di Guarino su quello che di fatto è la prima versione della costituzione economica e politica della Ue. Anche per questo Guarino conosce come pochi le linee giuridiche di quel Trattato, che Carli firmò in realtà con mano tremante per i cambiamenti anche pericolosi che introduceva. Certamente era un avanzamento nel processo di unificazione dell’Europa immaginato dai padri fondatori, ma era anche chiarissimo su due dei cinque punti: nel lasciare il potere di imposizione fiscale ai singoli stati e nello stabilire che il vincolo del 3% di deficit dei bilanci statali potesse essere superato. Due principi che il Fiscal compact imposto da Angela Merkel nega, senza però aver previsto la procedura per la modifica dei trattati. Le considerazioni di Guarino sono state fatte proprie da più di un europarlamentare con la possibile conseguenza che oltre a non approvare il bilancio europeo, il Parlamento di Strasburgo impedisca l’entrata in vigore del Fiscal compact, che su sollecitazione di Monti l’Italia ha approvato, prima fra tutti i Paesi europei. La sempre più pesante situazione nella quale la Francia viene a trovarsi sul piano economico potrebbe determinare che il secondo Paese europeo per numero di abitanti e quindi di deputati insieme all’Italia, conduca a Strasburgo una battaglia contro il Fiscal compact attraverso il Partito socialista europeo a cui aderisce il Partito socialista francese insieme al Pd. Se quindi in Italia si respira finalmente una voglia di riscatto, a prescindere dal governo che verrà se verrà, anche nel Parlamento europeo crescono i fermenti per un rilancio dello sviluppo, contro la politica del rigore assoluto della signora Merkel. Si intravede così, giova ripetere finalmente, una possibile inversione di tendenza a livello non solo italiano, ma anche europeo. Combinandosi i due fattori, potrebbe nascere anche per l’Italia il momento del rilancio della crescita, dando sostegno a chi già oggi sta lavorando nella convinzione che L’Italia c’è e che non ci si può rassegnare alla disfatta economica e sociale.