Massimo Vincenzi, Affari&Finanza, la Repubblica 18/3/2013, 18 marzo 2013
DUSTIN MOSKOVITZ IL BABY MILIARDARIO CHE SI VUOLE DEDICARE ALLE GIUSTE CAUSE
Ha 28 anni, i riccioli neri a volte corti o più spesso, come nelle ultime apparizioni, lasciati ribelli sulla fronte. Le basette spesse e lunghe, stile anni Settanta, ad indurirgli un po’ il volto tondo ancora da ragazzo. Si chiama Dustin Moskovitz e non avrebbe nulla di speciale se non fosse il più ricco giovane del mondo. O, se preferite, il giovane più ricco del mondo. Non fa molta differenza: ad invertire l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Nella classifica di Forbes il suo patrimonio personale è valutato attorno ai 4 miliardi di dollari (3,8 per la precisione) ma la stima secondo altri calcoli (Cnn-Money) è errata per difetto. A garantirgli il primato nella corsa anagrafica fra i 400 miliardari elencati da Forbes sono gli otto giorni di vantaggio che separano il suo compleanno (22 maggio 1984) da quello dell’amico e collega Mark Zuckerberg (il 14, stesso mese, stesso anno).
Moskovitz infatti è uno dei quattro compagni di stanza che nell’inverno del 2004 crearono Facebook, il social network che ha cambiato le loro vite, quelle di milioni di persone e fissato per sempre un prima e un dopo nella storia della new economy. Lui ora se n’è andato dal sito più famoso del mondo - si è dimesso nel 2008 per fondare una società tutta sua - ma per raccontarlo bisogna tornare indietro a quei giorni. «È stato un periodo stupefacente », spiega in una delle ultime interviste rilasciate sul palco di un evento organizzato dal sito Pandodaily (gettonatissimo nella Silicon Valley). «La prima settimana di Facebook è stata incredibile, sembrava che ogni idea potesse diventare ancora più grande. Ogni cosa che ci passava per la testa diventava reale. Momenti così ti danno enorme fiducia in te stesso. Poi è arrivata la scelta di trasferirci in California: da lì non ci siamo più fermati e siamo diventati Facebook». Nell’impresa Dustin è il programmatore principe, il vero mago del computer: «Anche se ad Harvard, Mark aveva voti migliori dei miei, e io cercavo sempre di copiare».
Banalizzando, ma non troppo, è quello che non deve far cadere i server e, in quegli anni in cui i numeri del sito girano verso l’alto come un contatore impazzito, non deve essere un’impresa facile. Ma lui ci riesce alla grande: le linee non crollano mai. Un genio, dicono gli ammiratori, anche se in rete (come spesso accade) non mancano quelli che mettono in dubbio le sue reali capacità di programmatore. Ma il lavoro funziona. E Moskovitz riesce forse anche in un’impresa ancora più grande, quella di non litigare con il collega: «Con lui c’è stata sin da subito una relazione eccitante e veloce. E abbiamo continuato ad avere un’amicizia profonda che è cresciuta sempre di più nel corso degli anni. Quando ho dovuto dirgli che lasciavo Facebook è stato uno dei momenti più duri della mia vita. Ma lui ha capito e mi ha augurato buona fortuna». E Zuckerberg conferma con generosità (inusuale per lui): «Dustin rimarrà sempre uno di noi, il suo contributo per creare la nostra società è stato grandissimo e quando io avrò bisogno di un consiglio sarà lui che chiamerò».
Ben lontano dal clima velenoso, scandito da denunce e battaglie legali, suggerito dal film The Social Network, che infatti a Moskovitz non è affatto piaciuto: «Enfatizza cose secondarie, che io non mi ricordo nemmeno, e non racconta il vero spirito di quell’avventura». Ma che lui sia diverso lo si capisce anche e soprattutto leggendo le sue interviste, guardando i molti filmati che ci sono in rete: quasi sempre in scuole o università, dove viene chiamato a raccontare la sua esperienza. Parla piano, scandisce le parole. Distribuisce sorrisi rassicuranti, mai un’impazienza da star. E dice molto anche la scelta del nome della nuova società, Asana: una parola in sanscrito che indica le posizioni dello yoga in grado di purificare i canali energetici degli individui. E lo scopo dell’impresa, fondata insieme a Justin Rosenstein (ex Facebook e Google), ha in effetti comunque qualcosa di mistico (oltre che di molto concreto come i dollari). È un software di condivisione che permette alle aziende di ottimizzare e aumentare la produttività dei dipendenti. E ai lavoratori di svolgere al meglio le proprie mansioni: «Farà al mondo del lavoro quel che Facebook ha rappresentato nella vita sociale di tutti noi».
Le parole, certo. Ma anche lo stile. Alle t-shirt care a Zuckerberg preferisce le camicie: a scacchi preferibilmente o nere nelle occasioni più ufficiali, jeans scuri o sdruciti e sneaker (All Star blu di solito) completano la divisa. A San Francisco dove abita non si è scelto una supervilla ma un condominio, di lusso certo, ma senza nessuno sfarzo improbabile o accorgimenti sofisticati di design. Al lavoro va in bicicletta e nella sede della società, come racconta il New York Timesin un recente reportage, non ci sono tavoli da biliardo come a Yahoo! o costosi murales come a Facebook ma sul pavimento un vecchio gioco di società anni Sessanta. Sul suo biglietto da visita c’è scritto semplicemente “Asana” ed è lo stesso titolo degli altri 22 dipendenti e colleghi, i cui stipendi sono regolati in base all’anzianità di servizio e alle competenze. Lui si è assegnato un compenso di 33.280 dollari, dopo che i suoi avvocati gli hanno sconsigliato di pagarsi un dollaro. Comunque non è la sua principale fonte di reddito visto che nell’agosto del 2012, in due riprese, ha venduto azioni di Facebook per un valore pari a quasi 9 milioni di dollari, facendo scendere la sua quota dal 6 al 5 per cento.
Tutti indizi che tracciano una personalità complessa in bilico tra la meditazione e il Nasdaq: «Non vivo bene tutta la ricchezza, ne ricevo quasi una sorta di ansia: deve essere una cosa che ho ereditato dai miei genitori. Lo so che può sembrare strano. Ma io non ho accumulato il mio patrimonio in una vita, tanto da poter dire ad un certo punto: ok va bene così, questo sarà il mio standard. No, io sono passato dal dormitorio dell’università ad avere un miliardo di dollari. Adesso sono molto più emozionato dal pensiero di aver contribuito a costruire qualcosa di grande. E di avere ancora energie per fare altro in futuro».
E su cosa lui voglia da grande ci sono pochi dubbi. Insieme alla fidanzata, la ricciola e sorridente Cari Tuna, ex giornalista del Wall Street Journal, ha fondato Good Ventures, una società no profit che ha come ragione sociale la beneficenza. E loro hanno subito aderito a Givin Pledge, l’iniziativa lanciata da Warren Buffett e Bill Gates per convincere gli ultraricchi a donare la metà dei loro patrimoni per aiutare chi ne ha bisogno.
E il fondatore di Microsoft è uno dei suoi modelli come spiega in un’intervista/dialogo a Forbes: “Se mi immagino tra qualche anno vorrei essere come lui. Penso che per vivere non serva tutto questo, a me basta l’1% di Facebook e sto parlando comunque di una cifra enorme. E dunque ritengo che sia giusto impegnarsi per fare del bene agli altri”. Fiducia nella tecnologia certo, ma ancora di più nelle vecchie regole essenziali per fare crescere bene una società: buone scuole, ricerca e più occasioni per tutti. “Se dai a un bambino la possibilità di istruirsi al meglio, se gli fornisci gli strumenti giusti è la strada migliore per garantirgli ottimi stipendi in futuro”.
Non a caso Moskovitz è in prima linea con Bill Gates nella crociata per salvare le università americane dalla crisi in cui sono precipitate strangolate tra i debiti degli studenti e i tagli del governo. Battaglia che combatte assieme alla fidanzata: “Con Cari siamo uniti in tutto e ovviamente anche in questo, non potrebbe essere altrimenti. Lei addirittura ha deciso di lasciare il lavoro per dedicarsi a tempo pieno a questa splendida avventura. È qualcosa che fa bene anche al nostro amore, lo rende più solido”. Perché poi sotto quelle camicie stropicciate, schiacciato dai miliardi di dollari, batte un cuore da vecchio romantico. Molto old stylee poco new economy.