Stefano Micossi, Affari&Finanza, la Repubblica 18/3/2013, 18 marzo 2013
OCCUPAZIONE E LIQUIDITÀ LE DUE COSE DA FARE SUBITO
La situazione economica sta ancora peggiorando. L’economia è spinta in basso dal crollo dei consumi per i forti aumenti d’imposta e il calo dell’occupazione, e dalle condizioni di severa restrizione del credito e della liquidità alimentate dal circolo vizioso che si è instaurato tra difficoltà delle imprese e deterioramento di qualità dei crediti. Se non facciamo qualcosa, il Pil potrebbe cadere anche quest’anno di oltre il 2%. In una situazione così grave, senza precedenti nel nostro paese dalla seconda guerra mondiale, al Paese serve un governo. La prospettiva di un rapido ritorno alle elezioni può soddisfare le esigenze di questo o quel partito, ma al costo di scaraventare l’economia del paese in un autentico precipizio con il ritorno della speculazione sul debito dello Stato, la perdita dell’accesso ai mercati internazionali dei capitali, cadute di attività e occupazione a due cifre. Né l’economia può sopportare l’ipotesi di associare a stabili responsabilità di governo chi propone l’uscita dall’euro, la nazionalizzazione delle banche, l’utopia sgangherata della decrescita felice.
Qualcosa va fatto subito, come il mondo dell’economia chiede a gran voce: nelle more della ricerca di un nuovo governo, tocca al governo in carica di adottare gli interventi urgenti che servono per arrestare la caduta. Non credo vi possano essere dubbi sulla sua piena capacità di operare per fronteggiare l’emergenza. Come hanno capito anche i sassi, serve subito un’ampia immissione di liquidità alle imprese, saldando i crediti verso le pubbliche amministrazioni con cui queste si sono surrettiziamente finanziate negli ultimi anni. La strada della certificazione e poi dello sconto in banca dei crediti certificati si è rivelata un diversivo inventato dagli uffici del Tesoro per guadagnare tempo gettando poche gocce d’acqua su un terreno prosciugato dalla siccità. Il tempo di giocare è finito: quei debiti vanno riconosciuti, contabilizzati e pagati con titoli di nuova emissione. Si possono pagare subito con titoli di Stato i debiti dell’amministrazione centrale.
Stiamo parlando, secondo le stime fornite dal Ministero dell’Economia, di circa 20 miliardi, poco più dell’1% del Pil. Non mi pare che serva il permesso della Commissione europea dato che si tratta di contabilizzare una situazione esistente, già nota anche a Bruxelles. Si tratta in effetti di un semplice atto amministrativo di gestione. Né la liquidazione di questi debiti modificherebbe il disavanzo pubblico, trattandosi di un’operazione patrimoniale di sostituzione di debito con altro debito. Può darsi che si debba rivedere il piano di rientro del debito pubblico, ma visto il peso minimo delle somme coinvolte sullo stock totale del debito stesso, non mi sembra un gran problema.
Il grosso dei debiti commerciali, almeno 50 miliardi, riguarda le regioni e gli enti locali. Per questi, l’ipotesi di un ripiano da parte dello stato va esclusa. Ci cascò già il compianto Padoa-Schioppa, che intorno alla metà del decennio scorso caricò sui contribuenti 25 miliardi dei debiti accumulati, per metà ciascuno e con by-partisan protervia, dal Comune di Roma e dalla Regione Lazio. Invece di mandare i carabinieri, il povero ministro si contentò di vaghi impegni di rientro degli amministratori che avevano causato il disavanzo, con il risultato che quella Regione e quel Comune sono di nuovo indebitati come prima. Ecco perché l’idea di abbuonare di nuovo i debiti a loro, al Piemonte e alle altre amministrazioni decentrate fellone di cui è piena l’Italia, scaricandoli sullo stato, non è proponibile. Una soluzione più rigorosa ce la indicano i nostri vicini spagnoli (e non dissimili proposte avanzate da Astrid): si istituisca un fondo presso la Cassa Deposti e Prestiti, che emetta titoli a breve-media scadenza garantiti dallo stato e assuma, a fronte, i debiti commerciali delle amministrazioni decentrate. Si imponga a queste di riconoscerli, con l’aiuto della Corte dei Conti. Il rimborso sia garantito vincolando direttamente una quota delle entrate fiscali. Qui una modifica del patto interno di stabilità sarebbe necessaria, ma solo per iscrivere nel bilancio degli enti interessati le quote di rimborso degli interessi e del capitale.
Ma non basta. Se la situazione della liquidità e del credito continua a deteriorarsi, cresce il rischio di un avvitamento tra sofferenza bancarie, esigenza di nuovi accantonamenti e riduzione del credito bancario. Perciò, non si può escludere la possibilità di dover chiedere il sostegno del Fondo europeo di stabilità: o per ricapitalizzare il sistema bancario, con generosità e a basso costo, come fece il segretario del Tesoro americano Paulson nell’ottobre del 2008; oppure, rimuovendo ampi pacchetti di crediti deteriorati dall’attivo delle banche e conferendolo a una “ bad bank”, come ha già fatto la Spagna e come ha recentemente proposto anche per l’Italia uno studio di Mediobanca Securities.
Qualcosa d’impatto immediato potrebbe farsi anche sul fronte dell’occupazione. Bisognerà naturalmente garantire ampio e generoso della cassa integrazione, ordinaria e in deroga, per assicurare un reddito minimo a tutti coloro che perdono il lavoro. Inoltre, si dovrebbe sospendere per un triennio ogni onere contributivo e fiscale sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato nonché, parallelamente, su ogni nuova attività di lavoro autonomo (inclusi i soci lavoratori di nuove attività d’impresa in forma societaria). Il provvedimento dovrebbe applicarsi a un periodo breve, non più di dodici mesi, per massimizzarne l’impatto.
La sospensione dei contributi non genererebbe alcun problema di copertura, basta non attribuire diritti pensionistici figurativi a fronte di quel periodo di attività. Quanto all’esenzione fiscale, è evidente che essa non produce, sul piano sostanziale, alcun onere per lo stato, dato che si tratta di redditi al momenti inesistenti. Su questo, forse il nuovo criterio di equilibrio dei conti introdotto dal fiscal compactconsente di superare il criterio formalistico di copertura tradizionalmente adottato dalla Ragioneria. Infatti, la legge n. 243 del 2102 di attuazione del principio del pareggio di bilancio (ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione n. 243 del 2102), definisce il requisito della copertura dei nuovi oneri per il bilancio pubblico in termini sostanziali all’equilibrio tra le entrate e le spese, che non sarebbe alterato concedendo uno sgravio da imposte che al momento non affluiscono al bilancio dello stato.