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 2013  marzo 18 Lunedì calendario

SCARONI E LA NUOVA ENI “GAS, PETROLIO, SCANDALI ECCO IL PIANO DI RILANCIO”


«L’Eni ha cambiato faccia: meno attività regolate più rischio, più crescita più volatilità, meno debito più liquidità». E’ cominciato il dopo-Snam, la cessione della rete del gas imposta dal governo e la perdita degli utili sicuri che assicurava ha imposto la definizione di una nuova strategia che aumenta il rischio d’impresa ma anche le prospettive di redditività.
Paolo Scaroni è alla guida dell’Eni da 8 anni, il suo terzo mandato scadrà nella primavera del 2014. Ne farà un quarto?
«Non sta a me decidere, io posso dire solo che il mio contratto prevede espressamente che io devo essere disponibile al rinnovo, e lo sarò».
In questi suoi otto anni al vertice dell’Eni il mondo dell’energia è profondamente cambiato. Che scenario si va delineando?
«La vera novità è il gas. In termini di costo per caloria tradizionalmente il gas aveva un prezzo intorno al 70-75 per cento del gasolio. La rivoluzione dello shale gas ha però determinato due fenomeni: il primo è che negli Stati Uniti il prezzo per caloria del gas è crollato al 20 per cento di quello dei derivati del petrolio. Il secondo è che c’è un prezzo negli Stati Uniti, pari a circa 3 dollari per metro cubo, un prezzo per l’Europa, pari a 10-11 dollari, e uno per l’Estremo Oriente, di 17-18 dollari. La ragione di questa diversificazione enorme dei prezzi è che trasportare il gas richiede infrastrutture complesse e costose».
Cosa deriva da questa nuova geografia del gas?
«La domanda che tutti si pongono è in che tempi avverranno le due convergenze, quella tra i prezzi nei diversi mercati e quella tra il gas e gli altri derivati del petrolio. E’ un processo inevitabile e certamente non breve, ma i tempi saranno determinanti per le scelte dei produttori, degli investitori industriali e dei soggetti politici».
Cosa cambia per gli investitori industriali?
«Chiunque voglia fare oggi una produzione ad alta intensità di energia non andrà più in Qatar o in qualche altro paese del Golfo ma negli Stati Uniti, perché i costi sono gli stessi, ma essere negli Stati Uniti fa una differenza rilevante».
E le conseguenze geopolitiche?
«Oltre allo shale gas c’è anche lo shale oil, del quale gli Stati Uniti sono ricchi. Grazie all’uno e all’altro nel giro di pochi anni gli Usa diventeranno autosufficienti sul piano energetico, il che gli assicura un grande futuro economico e industriale ma inevitabilmente comporterà una perdita di interesse per le aree del mondo legate alla loro dipendenza energetica. A quel punto delle tre grandi potenze, Stati Uniti, Russia e Cina, l’unica che avrà un interesse geopolitico per i paesi petroliferi sarà la Cina, che però è sempre stata una potenza volta all’interno più che all’esterno ».
E l’Europa?
«Se vorrà giocare un ruolo dovrà scrollarsi di dosso i suoi nazionalismi, avere una unica politica estera e un unico esercito ed essere anche assai più pragmatica».
Quanto siamo lontani da questo obiettivo?
«Sembrerebbe molto, e per arrivarci bisognerebbe che l’Europa ci facesse anche un po’ sognare».
Un rilievo geopolitico lo hanno anche le grandi infrastrutture, i gasdotti in progetto, dal Southstream al Nabucco, in competizione tra di loro.
«Non sono necessariamente in competizione. Il Southstream si propone di portare il gas russo in Europa passando sotto il Mar Nero invece che attraverso l’Ucraina, il Nabucco e altri si propongono di portare in Europa il Gas azero, altri progetti vogliono portarlo da altre regioni. Il linea di massima la diversificazione delle fonti è sempre positiva».
Voi siete nel Southstream e comunque trattandosi di progetti assai costosi è difficile che ci siano risorse per tutti.
«Io posso parlare del Southstream, che verrà finanziato da Gazprom che è anche produttore del gas che passerà attraverso quei tubi e che si assicurerà che arrivi comunque in Europa a prezzi competitivi ».
Ma si farà? E perché Gazprom ci tiene tanto?
«La ragione del progetto, con la quale io concordo, è che passare da un paese che non produce né consuma quel gas è un rischio in più. Quanto alla realizzazione io penso che sia probabile ma non certa perché ci sono ancora ostacoli, tra i quali l’autorizzazione dell’Unione Europea, prevista quando chi costruisce il gasdotto vuole utilizzarlo in esclusiva per un certo numero di anni. E’ una decisione sulla quale incidono considerazioni politiche: se l’Ucraina viene bypassata perde peso politico ed una entrata importante e ci sono posizioni favorevoli e posizioni contrarie».
La sua qual è?
«Noi non entriamo in questi aspetti, l’interesse di Eni è portare il gas ai suoi clienti con meno rischi possibile».
Quando c’è il petrolio di mezzo ogni evento diventa bollente. Quale impatto prevede sulle vostre attività dall’evoluzione delle Primavere Arabe?
«Noi abbiamo paura solo di una cosa: la sicurezza. Non possiamo né vogliamo operare quando si spara intorno. Chi ha il potere o chi lo avrà ci importa poco, e la storia ci conforta, in 60 anni abbiamo prodotto tranquillamente anche se intanto il mondo cambiava e non sempre in modo pacifico. E la ragione è che chi sta al potere come chi va al potere ha interesse a difendere la sua fonte primaria di reddito. Comunque sono fiducioso, la Libia, l’Egitto, la Tunisia troveranno la loro strada».
Intanto vi state spostando sempre più verso l’Africa sub Sahariana.
«La nostra dipendenza dall’Africa Mediterranea scenderà nei prossimi anni dal 30 al 15 per cento, ma non per un nostro disimpegno quanto perché abbiamo trovato nuovi giacimenti importanti come quello in Mozambico, dai quali arriverà una parte rilevante della nostra nuova produzione».
E del quale avete ceduto il 20 per cento alla cinese Cnpc.
«Più che una cessione è un accordo strategico, che ci assicura un compratore per il gas che estrarremo da Mamba e che ci ha consentito di entrare nello shale gas cinese con una concessione promettente per la quale l’Eni non ha pagato prezzo d’acquisto. Il rapporto con Cnpc potrà poi allargarsi ad altri paesi e altri progetti».
Entrate in Cina ma arretrate in Iraq, è un cambio di strategia territoriale?
«Siamo entrati nel progetto di Zubair con molto entusiasmo nella convinzione che nel tempo la situazione del paese si sarebbe normalizzata. Però le cose stanno andando più lentamente del previsto e ci domandiamo se lo sforzo organizzativo che stiamo facendo viene adeguatamente remunerato. Abbiamo fatto presente il problema, che non è solo nostro, alle autorità di Bagdad e avviato un dialogo dal quale traiamo qualche segnale positivo, per cui siamo cautamente ottimisti. Non abbiamo però partecipato alla gara per Nassiria, che pure è una zona che conosciamo meglio di tutti, perché riteniamo che l’impegno a Zubair sia già rilevante ».
Ultima, almeno in questo elenco, delle zone calde, il Venezuaela. Come impatterà sull’Eni il dopo-Chavez?
«Gli ultimi anni sono per noi positivi, avevamo avviato un arbitrato poi superato da un accordo, abbiamo scoperto il giacimento importantissimo di Perla dal quale estrarremo gas che sarà acquistato dal Venezuela che così diventerà autosufficiente. Nei giorni scorsi abbiamo avviato la produzione di Jumin 5, nel bacino dell’Orinoco e alla fine del prossimo anno costruiremo un grande impianto con una nostra tecnologia per alleggerire il petrolio dell’Orinoco e renderlo commerciabile. Come testimonia tutto ciò le relazioni sono buone e non vedo ragioni per cui debbano cambiare».
Il 2012 è stato l’anno record dell’Eni nel settore delle nuove scoperte. Fortuna o bravura?
«Le rispondo così: siamo fortunati perché siamo bravi. In termini di successi esplorativi siamo i campioni del mondo e se continuiamo a fare molto meglio dei nostri competitori è perché non io, ma la struttura guidata da Claudio Descalzi (direttore generale dell’area Esplorazione & Produzione dell’Eni, ndr), ha messo l’esplorazione al centro dell’azienda».
Non è quello il mestiere di una società petrolifera?
«Non è una scelta così ovvia. Vede, se non si fa nulla ogni anno la produzione si riduce del 5 per cento perché i vecchi pozzi vanno ad esaurire la loro capacità, di fronte a questo destino ci sono due opzioni: la prima è dare peso all’esplorazione e la seconda è dare peso alla finanza, ovvero rimpinguare le proprie riserve acquistando asset petroliferi. In questa seconda ipotesi ci sono meno rischi, perché si sa quello che si compra, anche se si tratta di pagare il giusto prezzo. La prima opzione è più rischiosa perché investi ma non ha la certezza di scoprire, ma naturalmente se scopri ne vieni ampiamente ripagato. Noi abbiamo fatto questa scelta e ne siamo stati ampiamente ripagati ».
Il problema con le nuove scoperte sono il tempo e gli investimenti per arrivare alla produzione.
«Siamo bravi anche in quello, grazie al fatto che anche se siamo inevitabilmente burocratizzati riusciamo ad essere un po’ anche imprenditori. E anche grazie al fatto di essere italiani. Noi assumiamo ingegneri e tecnici italiani, che tendono a restare con noi a lungo, anche perché in Italia siamo primi nella classifica dei best employer, mentre nel mondo anglosassone la mobilità è altissima. Per una volta la scarsa mobilità degli italiani è un punto di forza».
Questa vostra scelta imprenditoriale di rischiare ci porta alla Snam, un’attività regolamentata e redditizia che lei ha fatto di tutto per conservare nel perimetro dell’Eni. Ma ora la Snam è stata ceduta (quasi tutta) e l’Eni va meglio di prima. Non è che quella difesa ad oltranza sia stato un errore?
«Io mi sono opposto fieramente alla cessione di Sam Rete Gas attraverso la scissione, ovvero distribuendo le azioni agli azionisti dell’Eni. Ora ho venduto la Snam, e non solo Snam Rete Gas, incassando e facendo una operazione che è andata a vantaggio degli azionisti dell’Eni e di quelli di Snam».
Veramente la sua battaglia ci era sembrata più radicale.
«E’ vero. Non sapendo dove si sarebbe andati a finire ho preferito dire di no a tutto».
Ma alla fine è andata bene...
«Abbiamo sostituito un flusso di utili certo con una struttura finanziaria migliore e ci siamo lanciati con maggiore determinazione nell’esplorazione dove ci sono più rischi ma anche maggiori risultati».
In sintesi meno rendita più sviluppo, mi sembra un buono scambio. Chiusa sostanzialmente la partita Snam (resta solo l’11 per cento da collocare), se n’è aperta un’altra, per ragioni giudiziarie, quella della Saipem. Cominciamo dal primo punto: lei è indagato.
«Sono indagato perché in alcune occasioni ho incontrato una persona che mi era stata presentata come l’assistente personale dell’allora ministro del petrolio algerino. E’ tutto già noto e questo è quanto. Le aggiungo che io sono tranquillissimo e che ho la massima fiducia nella magistratura con la quale stiamo collaborando».
Comunque vada a finire c’è però già un danno reputazionale per l’Eni.
«E’ ovvio che questo danno avrei preferito non averlo, ma aggiungo che nelle relazioni che io personalmente e il gruppo abbiamo in tutto il mondo non è percepibile. Tuttavia questa vicenda ci ha fatto accendere un faro sul fatto che Saipem è a tutti gli effetti una azienda del gruppo, che ha il cane a sei zampe nel suo marchio, ma è un’azienda che non possiamo né vogliamo controllare perché lavora, e con grande successo, con i nostri competitori».
La luce di questo faro cosa vi dice, è meglio tenerla o cederla?
«Saipem è una delle più straordinarie storie di successo industriale degli ultimi decenni. Dalla sua quotazione, anche ai prezzi attuali delle azioni, ha moltiplicato di 18 volte il suo valore. Questo successo è dovuto a tre fattori: la capacità ingegneristica italiana nel contracting; il fatto di avere dietro le spalle robuste dell’Eni; Pietro Franco Tali (l’amministratore delegato di Saipem che si è dimesso lo scorso autunno, indagato per corruzione internazionale legata all’acquisizione di commesse in Algeria, ndr), il manager che io ho trovato alla guida della Saipem quando sono arrivato in Eni, che ha fatto un percorso eccellente. Noi consideriamo che ci sia una importante sinergia sia dal punto di vista operativo che manageriale e continuando sull’impostazione data da Vittorio Mincato (il predecessore di Scaroni al vertice dell’Eni, ndr) abbiamo lasciato la gestione della Saipem completamente separata ma sempre nella convinzione dell’utilità di tenerla all’interno del gruppo».
Il problema della corruzione internazionale, delle tangenti e del ruolo degli intermediari tuttavia esiste.
«Verso le tangenti ho tolleranza zero, quindi all’Eni non si pagano, ma le assicuro che nel nostro bisuness non le paga nessuno e noi ci comportiamo, con convinzione, come gli altri. E neanche i grandi contractor ne hanno bisogno. Quanto agli intermediari, l’Eni ha zero contratti di intermediazione, non perché sia proibito ma perché richiedono una due diligence ossessiva per evitare che nascondano qualcosa d’altro».
Un altro capitolo delicato sono i contratti take or pay, che costano all’Eni e ai consumatori e alle imprese italiane svariate centinaia di milioni. Non è pentito?
«Premesso che io ho solo rinnovato un contratto già esistente con la Gazprom che al mio arrivo era stato già rinegoziato e siglato, ci sono due precisazioni e una considerazione da fare. La prima precisazione è che il peso economico di quei contratti ricade interamente sull’Eni e non arriva alle bollette dei consumatori; la seconda è che tutta l’Europa vive di contratti take or pay, l’Eni stessa ha contratti del genere sia come compratore che come venditore, quindi non c’è nulla da demonizzare. Infine la considerazione: oggi il prezzo del petrolio per barile è di 110 dollari, ebbene se avessimo il petrolio a 50 dollari noi guadagneremmo su quei contratti ma molto meno con l’esplorazione e produzione di petrolio. Visti i pesi relativi sui conti dell’Eni preferisco perdere sul take or pay e guadagnare con esplorazione e produzione. Ma poiché a noi non piace perdere in nessuno dei nostri business abbiamo avviato una serie di rinegoziazioni sull’80 per cento circa dei contratti take or pay in essere che contiamo ci portino dei risultati a partire già da quest’anno».
La Strategia Energetica Nazionale prevede di fare dell’Italia l’hab del gas europeo, dal suo punto di vista è un progetto che ha senso?
«Ha senso perché da noi arrivano il gas algerino e quello libico, ha meno senso se non ci doteremo di rigasificatori per diversificare le fonti. E’ importante poi rendere più fluido il transito transfrontaliero del gas anche in uscita, cosa alla quale la Sman sta lavorando».
L’Italia ha riserve di idrocarburi nel suo sottosuolo, si parla del 10 per cento del fabbisogno nazionale per dieci anni. Vale la pena tirarlo fuori viste le quantità non risolutive e la contrarietà dell’opinione pubblica?
«Sono riserve facilmente sfruttabili, migliorerebbero la bilancia energetica, porterebbero 2 miliardi di entrate fiscali aggiuntive l’anno e creerebbero occupazione, quindi sfruttare quelle riserve avrebbe senso. Ma il no in Italia è molto forte».
Un’ultima domanda: c’è una gran pressione sui compensi dei manager, qual è la politica dell’Eni?
«Il mio stipendio viene fissato da un comitato di consiglieri indipendenti, approvato dal consiglio di amministrato e poi sottoposto all’assemblea, che peraltro l’anno scorso ha approvato con il 97 per cento dei voti (Tesoro escluso). Più in generale la remunerazione deve essere competitiva per attirare talenti e deve premiare i risultati ottenuti nel lungo termine. L’Eni si confronta con il mondo dell’oil e tiene conto del mercato in quel settore ».
Tuttavia c’è una forte attenzione dell’opinione pubblica, che non apprezza le retribuzioni stratosferiche di alcuni soprattutto a fronte delle difficoltà di molti.
«Penso che la gran parte delle persone che io conosco e che fanno il mio mestiere lavorerebbe anche se guadagnasse la metà, me compreso. Ma c’è il mercato del quale non si può non tenere conto. Credo che la strada giusta sia quella di una maggiore sensibilità più che quella di una rigidità regolamentare».