Giovanni Pons, la Repubblica 19/3/2013, 19 marzo 2013
DELLA VALLE: “SCIOGLIERE SUBITO IL PATTO RCS E BAZOLI RINUNCI A GUIDARE INTESA SANPAOLO”
Diego Della Valle, fondatore della Tod’s, esce allo scoperto in questo difficile momento economico e politico del paese per lanciare l’allarme e proporre le sue ricette per combattere la spirale negativa.
Come si esce dallo stallo politico-economico?
«Con la competitività e la solidarietà, mettendo al centro della questione il mondo vero del lavoro, quello che rischia sulla propria pelle, operai, sindacati, imprenditori, dai più piccoli ai più grandi, artigiani e commercianti. Bisogna individuare le cose più urgenti da fare per dare ossigeno, in tempi brevissimi, a queste imprese e agire subito perché il sistema sta collassando».
Ha solo critiche da fare o anche qualche idea?
«La politica deve fare subito quelle due o tre cose per far tornare le aziende competitive sui mercati internazionali e far ripartire i consumi domestici. Purtroppo la politica ed i politici degli ultimi decenni hanno portato il paese a questa disastrosa condizione e, come se non bastasse, molti di loro si stanno riproponendo da protagonisti della futura vita politica italiana ».
Lei sposa l’antipolitica?
«No, sono i vecchi politici che sono veramente senza vergogna e non vogliono prendere atto che gli italiani stanno chiedendo di voltare pagina subito e in maniera radicale».
Come?
«C’è bisogno di una legge elettorale nuova, seria e comprensibile a tutti, che ci permetta di scegliere le persone che ci rappresentano e che possono governare senza mille impedimenti ed inciuci incomprensibili alla gente. Fatta con urgenza la nuova legge elettorale, è bene tornare a votare il prima possibile».
L’Italia ha il problema di un sistema finanziario ancora bloccato su alcuni centri di potere intrecciati tra loro: Mediobanca, Generali, Intesa, Rcs. Ci vuole una scossa?
«É la vecchia storia di chi ancora crede che le azioni si “pesano” e non si contano. Per fortuna oggi non è così: le azioni si contano eccome! Credo che a suo tempo il peccato originale sia stato quello di immaginare che si potessero controllare le aziende senza investirci molto denaro, magari costruendo intrecciatissimi rapporti tra aziende e persone, con l’utilizzo dei patti di sindacato, strumento obsoleto e oramai a fine corsa. La vera regola del mercato è che per comandare nelle aziende bisogna investire, e chi più investe più ha diritto a guidarle poiché corre rischi maggiori».
Sta pensando a Mediobanca?
«Ho conosciuto i patti di sindacato quando sono diventato azionista di Mediobanca e, nel momento in cui ho capito come funzionava quel sistema, ne sono uscito appena ho potuto. È un sistema lontano mille miglia dal mio modo di concepire la gestione delle aziende. Credo comunque di poter dire che oggi in Mediobanca le persone più intelligenti, che guidano quel gruppo, siano consapevoli che è il momento di voltare pagina, di aprirsi sempre di più al mercato e di farsi rispettare per i risultati conseguiti».
La Rcs, dove lei ha fatto un investimento importante, è il simbolo del capitalismo di relazione all’italiana. Stretta tra un patto di sindacato di 12 soci e un debito cresciuto per acquisizioni poco lungimiranti. Qual è la sua ricetta per uscire dallo stallo?
«Rizzoli è un buon esempio di come non devono essere gestite le aziende. Sono un azionista importante di quel gruppo, ho creduto a suo tempo nelle potenzialità che poteva esprimere ed ho fatto un grande investimento sull’azienda. Nonostante sia stato per molti anni nel suo cda, non sono riuscito a dare a questa azienda una strategia solida e ad imporre alcune idee, che forse oggi non avrebbero fatto trovare l’azienda nelle condizioni in cui versa. Tutto questo perché qualcuno riteneva che un eccesso di movimento dell’azienda potesse prima o poi muovere anche il baricentro del potere, dimenticandosi che in un’economia di mercato l’unico vero potere riconosciuto è la competitività, la qualità dei prodotti e l’indipendenza economica».
Si sente sconfitto?
«No, lo sono le molte persone che non hanno nessuna colpa ma saranno costrette a lasciare l’azienda per la mancanza d’attenzione e di competenza da parte di alcuni che si sono sempre considerati la “guida spirituale” del gruppo. La mia posizione, per il futuro, è che venga subito sciolto il patto di sindacato e che si riescano a trovare alcuni azionisti disposti ad investire quello che serve e a guidare l’azienda assumendosene la responsabilità ed i rischi conseguenti. Trovo anche corretto che venga destinata una quota di azioni ai dipendenti che così potranno vigilare sul loro futuro».
Insomma, liberi tutti?
«Se non si seguirà questa direzione sarà la dimostrazione che i “soliti noti” tenteranno ancora di comandare in penombra investendo molto poco e rischiando praticamente nulla. Sento nell’aria che qualcuno sta tentando di far credere ai giornalisti di essere il dominus della situazione Rizzoli, per cercare magari d’intimorire le persone che ci lavorano o di averle più disponibili».
Forse l’anomalia sta nella presenza delle banche nell’azionariato delle aziende di sistema, banche a loro volta controllate dalle Fondazioni che perpetuano il controllo evitando ricambi al vertice. È così?
«Ci sono istituti che hanno lavorato bene e in una logica di modernizzazione si sono aperti al mercato e altri, invece, che non hanno capito ancora che il mondo è cambiato e tentano di riproporre un copione vecchio ed obsoleto, che serve solo a garantire il loro potere personale e la loro poltrona: esempio lampante di questo sistema è Giovanni Bazoli».
Perché proprio lui?
«Questo signore, all’età di 80 anni, sta tentando ancora, d’intesa con un gruppo di sodali a lui simili, di farsi rieleggere alla guida di una delle banche più importanti del nostro paese. L’obiettivo di Bazoli e dei suoi compari è quello di continuare a controllare un sistema di potere molto ramificato, autoreferenziale, di individui che non hanno fatto meno danni al paese di quelli fatti dalla politica della quale, fra l’altro, sono stati spesso ispiratori e sostenitori ingessando così un pezzo importante dell’economia degli ultimi decenni. Sarebbe un bel gesto se Giovanni Bazoli, che è il simbolo di questo sistema, evitasse di farsi rieleggere e lasciasse spazio a persone della sua banca con caratteristiche più adeguate a ricoprire questo ruolo per il futuro».
Perché Bazoli dovrebbe ascoltarla?
«Credo che quello che farà Bazoli nei prossimi giorni e le prese di posizione della politica nei suoi confronti saranno la chiara dimostrazione, nei confronti dei cittadini, se chi ha il potere in mano vuole cambiare o no questo paese. Se Bazoli, e quelli come lui, rimarranno al loro posto sarà una grande sconfitta per tutti quelli che vogliono che il paese cambi e si modernizzi ».
Lei in passato ha criticato la Fiat per l’incapacità di proporre nuovi prodotti sul mercato italiano e la fragilità nell’azionariato. E’ ancora di questo parere?
«La mia presa di posizione nei confronti della Fiat è nata dal fatto che le cose che si stavano facendo in quel periodo non erano più solo una loro questione privata, bensì erano fatti che riguardavano tutti noi imprenditori e lavoratori italiani. Penso che quello della Fiat di allora fu un gesto irrispettoso nei confronti del paese e delle istituzioni, una dimostrazione di forza e di arroganza».
Ma lei cosa c’entra con la Fiat? Da Torino potrebbero chiederle perché non si fa i fatti suoi.
«Loro sono una delle grandi aziende del paese, e io sono un cittadino. Quei fatti sono anche miei. Mi dispiace che queste cose abbiano rovinato il buon rapporto che io e Marchionne avevamo, ma sono sicuro di aver fatto la cosa giusta e coerente con il mio modo di agire. Altro ragionamento è quello che riguarda John Elkann e quello che rimane degli Agnelli, perché penso che farebbero bene a non dimenticare mai quello che l’Italia e gli italiani hanno fatto per loro e quanti aiuti, agevolazioni e favori hanno ricevuto dal paese negli ultimi 50 anni. Se oggi, con la crisi che attanaglia il paese, non saranno disposti a fare la loro parte, saranno a ragione considerati dagli italiani dei “disertori sociali”. Se la politica avesse destinato l’attenzione rivolta alla Fiat a tutto il mondo delle imprese italiane, oggi la condizione del paese sarebbe migliore, per competitività e solidarietà».