Giancarlo Perna, il Giornale 18/3/2013, 18 marzo 2013
AMATO, TAPPABUCHI DI LUSSO ETERNO CANDIDATO A TUTTO
Se c’è una carica in scadenza, puntuale si affaccia la candidatura di Giuliano Amato a fare da tappabuchi. Amato non è mai considerato una prima scelta, ma una riserva per tempi bui. Questo perché ha le due caratteristiche di fondo dello sbrogliatore di matasse: è molto capace e, soprattutto, capace di tutto. Questa volta, per il Quirinale, si fa il suo nome da sinistra mentre nel 2006 - quando vinse Napolitano- era il pupillo della Cdl per un vago innamoramento del Cav che aveva sentenziato: «È il migliore di tutti». Prudente e insinuante, il Dottor Sottile sa entrare nelle grazie di coloro cui offre i suoi servigi, lesto però, al primo allarme, ad abbandonare la nave che affonda. Memorabile, vent’anni fa, il voltafaccia con Bettino Craxi, di cui era la creatura, ma che rinnegò ai tempi della morsa giudiziaria con la frase più maramalda dell’epoca: «Non immaginavo tanto marciume», riferita alle malversazioni che il pool di Milano rinfacciava al Psi. In realtà, sapendo tutto del partito di cui era il factotum, quel finto cadere dal pero dette intera la misura del suo cinismo. Superato solo dalla pavida indifferenza con cui assistette alla fuga in Tunisia del Cinghialone e alla lunga malattia, senza mai recarsi al capezzale ed evitando di partecipare al funerale. Il tutto, per un preciso calcolo: non pregiudicarsi l’avvenire con una compromettente visita al latitante. Una cautela che portò i suoi frutti.
Appena quattro mesi dopo la morte di Bettino nel gennaio 2000, Giuliano tornò, infatti, con pifferi e tamburi alla guida di Palazzo Chigi. Era la sua seconda volta. Ma che differenza dalla prima! Nel 1992, era diventato premier come socialista l’ideale degli anni giovanili - e per volontà di Craxi, il suo leader. Nel 2000, era invece sulle spoglie di Bettino che rientrava nel giro. Tornava premier grazie alla presa di distanza da lui, alla protezione di D’Alema & Co, alla sostituzione della tessera Psi con quella degli ex comunisti. Il baratro politico che divide i due soggiorni a Palazzo Chigi riassume l’opportunismo di Amato e la sua capacità di essere uomo di opposte stagioni. A fissarne il giudizio per i posteri, due giorni prima di morire, fu lo stesso Bettino: «Alla fine, è quello che si è comportato peggio». E includeva nell’amaro confronto anche i propri aguzzini giudiziari.
Dopo essere stato molto in vista per oltre due decenni - da braccio destro di Craxi negli anni Ottanta, alla guida del Viminale dell’ultimo governo Prodi -, Giuliano è defilato dal 2008 quando proclamò di avere chiuso con la politica. Lì per lì, la promessa non fu creduta perché l’aveva fatta più volte, continuando imperterrito ad accumulare cariche. Effettivamente però, da ultimo, si è accontentato di quisquilie: la presidenza della Treccani, una consulenza Deutsche Bank e la guida della Commissione sul futuro di Roma che Gianni Alemanno gli ha offerto ma che ha presto abbandonato, offeso dal rifiuto del sindaco di definire il fascismo «male assoluto». Anche in questo collaborare con un ex missino, mantenendosi però entro i confini del politicamente corretto di sinistra, c’è tutta la bramosia di Giuliano di ritagliarsi - ormai settantacinquenne- la silhouette neutrale di riserva della Repubblica, uomo di raccordo e conciliatore degli opposti. L’identikit ideale per il Colle. Curiosamente, non avendo più ruoli precisi, l’attenzione verso Amato negli ultimi anni si è concentrata sulla sua sovrabbondante pensione. Giuliano gode infatti, come ex parlamentare (cinque legislature), di 9mila euro mensili, più altri 22mila per cumulo tra vitalizio di ex docente universitario e l’indennità di ex presidente dell’Antitrust. Un totale di 31mila euro lordi il mese (più di mille il giorno) che sono la gioia di tutti i lanciatori di strali sui privilegi della casta. Stufo di essere preso di mira da ogni sponda, Giuliano ha dichiarato di «non essere un topo nel formaggio e di fare beneficenza». Ha precisato di tenere per sé solo i 22mila euro - che netti sono la metà - e di versare gli altri 9mila ai bisognosi. Ciononostante, ogni due per tre, la questione riaffiora. Tanto che il Dottor Sottile ha preso carta e penna e in una lettera al Corsera ha difeso se stesso con un’oratoria da libro Cuore - a cavallo tra ideali socialisti e individualismo liberale - che a parere del sottoscritto è la cosa più onesta che sia uscita dal suo in genere contortissimo cervello. «Io-scrive - nella mia vita mi sono fatto largo con le mie qualità. Non avevo alle spalle una famiglia altolocata, mio nonno era muratore, mia madre aveva fatto le elementari, mio padre (esattore siciliano, ndr) era diplomato». Spiega poi come sia emerso senza protezioni lavorando il doppio (se ad altri, sotto l’ala dei baroni, bastava un libro per salire in cattedra, a lui toccava scriverne due), fino a sfondare. E, giunto alla conclusione della sua arringa di uomo artefice di sé, pone un interrogativo: «Un curriculum così va additato ai giovani come esempio da non seguire o, invece, come un modello di mobilità sociale per chi non ha vantaggi di partenza?». Non fa una grinza.
Ma non dice tutto. La capacità, infatti, non è il solo ingrediente dei successi giulianei. All’origine, ci sono il suo genio manovriero e i leggendari salti della quaglia. Il ruolo che Amato, tra gli altri, ha svolto nella strana carriera imprenditoriale di Carlo De Benedetti, illumina nuovi aspetti della sua personalità.
Negli anni ’80, l’Ingegnere stava per acquisire dall’Iri di Romano Prodi il gruppo alimentare Sme per pochi spicci. Su incarico di Craxi, Amato silurò il progetto con un duro intervento parlamentare. Consumata però la rottura con Bettino, metà anni ’90, si fece perdonare lo sgarbo favorendo sfacciatamente gli affari dell’editore di Repubblica, beniamino dei Ds. Erano i tempi delle privatizzazioni. Le ferrovie di Lorenzo Necci, volendo fare cassa, avevano stipulato con la Telecom (allora pubblica) la cessione della rete telefonica ferroviaria per 1.100 miliardi sull’unghia. Amato, però, allora presidente dell’Antitrust, bloccò la vendita, con la scusa della posizione dominante di Telecom, e indicò in De Benedetti (già beneficato come secondo gestore dei telefonini da Ciampi nell’ultimo giorno del suo governo, prima dell’ingresso del Cav a Palazzo Chigi) l’acquirente perfetto. L’Ingegnere, esaltato dal favoritismo, fece un’offerta assai micragnosa: 750 miliardi (350 meno di Telecom), rateati in 14 anni. Un bidone che le Ferrovie (non Necci, già travolto innocente dalla giustizia all’italiana) trangugiarono, in ossequio al potente Amato e al famelico clientelismo che sperpera il bene comune. Ma vogliamo davvero, sfiancati come siamo dal debito di Stato, mandare al Quirinale chi ce lo ha inflitto?