Emanuela Audisio, la Repubblica 18/3/2013, 18 marzo 2013
SOSTIENE MARTINA
Ha fatto tutto prima delle altre. Per istinto e voglia di libertà. È stata forte, fragile, sbagliata, giusta. Soprattutto vincente. Ha amato chi le pareva come le pareva. E così ha giocato. Sotto rete, a testa alta. Il secondo sesso con la racchetta in mano. Martina non ha mai aspettato la vita, l’ha anticipata e tatuata. Nove Wimbledon, 167 tornei vinti in singolare, 177 in doppio, 18 titoli del Grande Slam. E poi il resto, che è tantissimo, immenso. Compresa la sua curiosità. Anche fuori dal rettangolo di gioco. Non si è fermata davanti agli avversari, all’età, alle convenzioni. Ha scelto una trans come coach e pazienza se Wimbledon con le sue fragole alla panna si scandalizzava. Né si è arresa a chi diceva: non si fa. All’est come all’ovest. Ha patito la solitudine, da straniera, c’è una foto in cui festeggia il successo abbracciando un palo: «Non conoscevo nessuno». Era ed è un esempio. Un simbolo di consapevolezza. Non solo: anche le donne possono, ma devono. Pure con le parole colpisce al volo, figurarsi se la spiazzi. Omaggiò un ristoratore di Milano con la frase: «Your cooking is better than my tennis ». Il tuo cibo è meglio del mio tennis. E ora: «Sono cresciuta in un regime comunista dove bambine e bambini facevano sport nella stessa maniera. Quando sono arrivata in America nei club però c’erano solo i ragazzi ». Martina Navratilova ha 57 anni, si tiene bene, ha attraversato epoche, sempre da protagonista, mai da fondocampo. Continua ad essere un simbolo sportivo non arrugginito. Magari si ammacca: un tumore al seno sconfitto, un edema polmonare mentre scala il Kilimangiaro, i divorzi e gli accordi extragiudiziali con le sue ex, ma se c’è una a cui chiedere cosa succede allo sport è lei.
Da Armstrong a Pistorius, non c’è un campione che si salvi. Resistono i vecchi miti mentre quelli più attuali si dissolvono. Lo sport è diventato infido o forse solo meno vero. «L’ho sempre detto: a est non c’è libertà di stampa, a ovest non c’è libertà dalla stampa. Non è che una volta i campioni fossero tutti perfetti, c’erano anche molti brutti tipi, le pecore nere fanno parte del panorama, solo che non si sapeva molto su di loro. Oggi invece tutti i personaggi dello sport passano sotto il microscopio, ogni loro azione viene ingrandita e trasmessa. E così se quello che vedi nello specchio non ti corrisponde iniziano i guai e le ombre. Una volta si faceva sport per un paese, per un’idea, per qualcosa, per se stessi. Ti caricavi sulle spalle un peso, imparavi la responsabilità, anche quando cercavi di liberarti. Io ho giocato a tennis perché mi piaceva, non per diventare ricca, come ti rispondono oggi. Un conto è il mito del successo, la voglia di fare e di strafare, quel felice egoismo che ti fa negare la sconfitta, un altro è quello di farcela perché ti piace il conto in banca e sei vittima della tua immagine. Se fai molti soldi significa che sei ricco e basta. Non diventi una persona migliore. Quello che conta è chi sei, come ti comporti con gli altri, i tuoi valori, il tuo carattere. Armstrong si è dopato? Non ho nessuna pietà per lui, voglio che vada via, che non torni mai più, è un baro, non credo alle confessioni dove si invoca la necessità di ricorrere a un metodo sbagliato per reggere la pressione ».
Quella di Pistorius sembrava una bella favola e invece è finita nel sangue. «Spero non si condanni il mondo dei disabili per colpa di Pistorius. Ognuno può avere contraddizioni e angoli oscuri, ma chi lotta ogni giorno per risalire da una condizione svantaggiata deve avere il diritto alla comprensione e al rispetto. Paga chi sbaglia, la colpa non può ricadere su chi prova a rimettersi in piedi. Bisogna sempre provare a realizzare le proprie idee. Perché è la testa che comanda tutto, anche il tuo corpo. Il giorno dopo aver avuto la notizia del tumore al seno sono andata a giocare a hockey, ma ho dovuto smettere, non avevo energie. Figurarsi lo stato mentale di persone a cui dicono che per la malattia non potranno più correre e saltare».
È ancora un anno di violenza contro le donne. «Anche per questo serve fare attività sportiva. Se impari a combattere, a non cedere, capisci che puoi reagire. Ma da sole non si va da nessuna parte. Serve una legislazione che aiuti, bisogna organizzarsi, e allearsi. È quello che abbiamo fatto all’Open di Australia per ottenere gli stessi soldi degli uomini. È inutile piangere sullo scarso potere delle donne anche al vertice dello sport se non si studia e non ci si mette in gioco. Guardate le leader femminili delle imprese e vedrete che tutte sono passate attraverso lo sport. Ma ora serve altro, serve una corrente di ritorno, una dirigenza di donne toste, preparate, professionali. Se vogliamo che lo sport femminile funzioni e non sia solo sfruttato per creare belle immagini e copertine, dobbiamo invogliare chi ha capacità ad occuparsene e attrarre risorse economiche e organizzative. Ricordate Anna Kournikova? Non ha vinto nemmeno un torneo, ma era bella, finiva sempre in prima pagina, molto più di Lindsay Davenport che è stata per otto volte numero uno del mondo. A un giocatore si chiede di essere bravo, non attraente, le ragazze invece devono anche essere uno schianto. Abbiamo dimostrato che le grandi donne possono occuparsi di stato e finanza ora bisogna anche metterle in cima all’azienda sport. Katharine Hepburn diceva sempre: ‘Non è quello che fai nella vita, ma quello che porti a termine’. Svelte, al lavoro».