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 2013  marzo 17 Domenica calendario

CLAUDIO BIANCHI «VI SPIEGO PERCHE’ A MILANO I CINESI NON MUOIONO MAI»

Il nome del pri­mo cinese che arrivò a Milano non lo sa nessu­no. La signora Ma­ria Guastoni rac­contava al nipote Gianni Berardinel­lo, panettiere oggi sulla settantina, d’averlo conosciuto nel 1905 e che abitava al numero 32 di via Canonica. Era fuggito dal suo Paese in seguito alla rivolta dei boxer, rievoca­ta nel film 55 giorni a Pechino. Degli am­bulanti che strillavano «tle clavatte, una lila» ha un preciso ricordo Sergio Gobbi, 82 anni, poeta dialettale che in una lirica celebra il rione della sua in­fanzia, il Borgo degli ortolani, detto an­che Borg di scigolat, delle cipolle, una zona un tempo così ricca di rogge da di­ventare il verziere dei milanesi, mentre oggi «l’è quella d’i cines a faà de padro­na». Vi si legge che «Wang Sang prim ci­nese el derva bottega», apre bottega. Per il primo ristorante con involtini pri­mavera e nuvole di drago nel menù bi­sognerà attendere fino al 1962: si chia­mava La Pagoda e lo inaugurò Sang Fyi Ming in piazza San Gioachimo. La storia dei cinesi a Milano coinci­de con la storia dei cinesi in Italia, per­ché fu nella metropoli lombarda che un secolo fa approdarono i primi 40 im­migrati, tutti maschi e tutti provenien­ti dallo Zhejiang, provincia a sud di Shanghai che ha per capoluogo Hang­zhou, descritta da Marco Polo come «la più nobile città del mondo e la mi­gliore». Alcuni sostengono che fosse il 1920, altri il 1924. Solo in un secondo momento gli immigrati orientali s’in­sediarono a Bologna, Firenze e Roma. Al 31 dicembre 2012 a Milano i cinesi erano 19.315, in aumento di 400 unità rispetto all’anno precedente. È come se un intero paese delle dimensioni di Agrate Brianza, anzi un 30% più popo­loso, avesse traslocato a ridosso del parco Sempione, in una ventina di stra­de intersecate dalle vie Sarpi, Canoni­ca, Bramante e Messina. In questa co­munità si muove come un topo nel for­maggio Claudio Bianchi, pensionato di 74 anni che, per autorità morale, sta alla pari con Liang Hui, la console gene­rale della Repubblica popolare. Da un decennio, cioè da quando ha lasciato l’incarico di direttore commerciale per l’Italia dell’azienda americana Kellogg’s, produttrice dei Corn flakes e delle Pringles, Bianchi inse­gna l’italiano ai cinesi di Milano. Lo fa da volonta­rio di una Onlus intitola­ta a Giulio Aleni, gesuita bresciano che sbarcò a Macao nel 1610. Giocan­do sul suo cognome, gli allievi l’hanno ribattezzato Bai ma wang zi, che significa Cavallo bianco, ma anche Principe azzurro. Da que­st’esperienza ha tratto un libro di 282 pagine, Il Drago e il Biscione. Cent’anni di convivenza: i cinesi a Milano (Ibis).
Milanese di vecchio ceppo (il padre Raimondo era contitolare del saponifi­cio Bianchi & Franchetti), sposato e già nonno, al docente basta uscire di casa e attraversare corso Sempione per entrare nella Chinatown meneghi­na. S’è avvicinato alla comunità asiatica usando la politica del ping-pong adottata negli anni Settanta dal presi­den­te americano Richard Nixon per ri­stabilire le relazioni diplomatiche con Mao Tse-tung: «Ancor oggi sono un pa­tito di questo gioco. Niente dà più sod­disfazione che sfidare i cinesi, i più for­ti al mondo nel tennis da tavolo».
E sui banchi di scuola come se la ca­vano?
«Benissimo. Io insegno ogni mercole­dì, da settembre a giugno, dalle 18 alle 20, ma loro, benché reduci da giornate di duro lavoro, restano in aula fino alle 22. Non conoscere neppure una paro­la di italiano li frustra molto».
Che cosa l’ha attratta dei cinesi?
«La forza di volontà. Li vedo determi­nati, granitici. Noi, al confronto, sia­mo pastefrolle ».
Finiranno per sottometterci.
«Non credo. In Italia se ne contano 210.000 e stanno cominciando i rientri: 23.000 hanno già fatto ritorno in Cina».
A giudicare da quello che si vede in via Paolo Sarpi e dinto­r­ni non sembrerebbe.
«Anche calcolando un 30% di irregolari, la Chi­natown di Milano non è affatto tale, visto che l’84% dei residenti è for­mato da italiani, solo il 14% da cinesi e il 2% da al­tre etnie. Comunque chi abita lì non può lamentar­si: le case di ringhiera ri­strutturate, che prima si vendevano a 3.000 euro il metro quadro, oggi valgo­no il doppio. Tant’è che i cinesi sono costretti a traslocare in viale Monza, via Padova, in zona Loreto, al Casoret­to, dove gli affitti sono più bassi».
Qual è il cognome più diffuso?
«Hu, scritto anche Ou. Seguono Chen, Zhou, Wang, Wu, Lin, Zhang, Liu, Zhao. Il cognome Hu è il secondo, quanto a diffusione, fra i milanesi, con 3.694 presenze, dopo Rossi, con 4.379. Seguono Colombo, 3.685, e Ferrari, 3.568. Noi Bianchi, 2.784, resistiamo al quinto posto. Non posso lamentarmi».
Chi è il cinese più in vista di Milano?
«Probabilmente Angelo Ou, nato in Italia, un imprenditore nel ramo delle intermediazioni legato al comparto tessile di Prato, figlio di uno dei primi 40 immigrati giunti negli anni Venti».
Perché provenivano tutti dallo Zhejiang?
«Nel 1917 fu sottoscritto un accordo fra i governi di Parigi e di Pechino, che portò 100.000 lavoratori cinesi in Fran­cia a scavare trincee e a sostituire nelle fabbriche i giovani francesi arruolati per la Grande guerra. A conflitto ulti­mato, non tutti tornarono in patria. Probabilmente questi 40 parlavano lo stesso idioma, quello della provincia dello Zhejiang, e quindi gli venne faci­le accordarsi per trasferirsi a Milano, sottraendosi così alla concorrenza del­le altre comunità di connazionali che s’erano insediate a Parigi. Va ricorda­to che fu Mao a dare ai cinesi una lin­gua nazionale: in precedenza parlava­no una miriade di dialetti. I 40 sposaro­no altrettante donne italiane».
Ma come fanno a comprarsi quasi tutti i bar, da Milano a Venezia? «C’è chi pensa che riciclino i capitali della Triade, la loro mafia, spesso indi­cata anche come la Mano nera, in cine­se hei she hui. In realtà c’entra la fami­glia allargata, che per loro è fondamen­tale. Se arrivano in Italia con un amico, costui diventa zio a tutti gli effetti. Han­no un grande senso della solidarietà e dell’onore, fra parenti si aiutano mol­to. Saldano i debiti col lavoro e non tira­no a fregarsi».
Sì, ma perché proprio i bar?
«È un’attività nuova, per loro, e anche la più semplice da gestire: un caffè lo sa fare chiunque. Su 100 cinesi, 27 so­no imprenditori in proprio: negozi, ri­storanti, barbieri, pedicure, massaggi. Ora cominciano con le sale gioco. Amano le scommesse, si rovinano puntando ingenti somme di denaro».
Pagano i bar in contanti.
«Sì, la conosco anch’io la storiella del cinese che spalanca la valigetta con dentro mezzo milione di euro in ban­conote per rilevare la licenza, ma è so­lo una leggenda metropolitana che va ad aggiungersi a molte altre».
Per esempio?
«“I cinesi non pagano le tasse nei primi cinque anni di attività”. Falso. France­sco Wu, presidente dell’Unione im­prenditori Italia-Cina, ha smentito questa bufala delle presunte agevola­zioni riservate ai cinesi dal fisco italia­no. Ma la più cretina in circolazione è quella secondo cui il governo di Pechi­no offrirebbe 200­.000 euro a fondo per­duto a ciascun cinese che espatria. Ma, dico, vi siete fatti due conti? La Cina ha un miliardo e 336 milioni di abitanti».
Non muoiono mai. Anche questa è una leggenda metropolitana? «E come fanno a morire? Oltre un quar­to di loro, il 27,2%per l’esattezza,sono minorenni. L’età media dei cinesi di Milano è 29 anni, quella dei milanesi 41. Su 80.000 ultraottantenni che abita­no nel capoluogo lombardo, non si an­novera un solo cinese. Comunque nei tre cimiteri di Milano ho visto con i miei occhi almeno una trentina di tombe, soprat­tutto con i cognomi Hu e Ou. Hu He Ping, in italia­no Alessia, mi ha confer­mato che i suoi bisnonni, arrivati a Milano nel 1950, riposano da anni al Monumentale».
È un fatto che non si leggono necrologi di cinesi e neppure si ve­dono avvisi funebri per strada.
«Essendo atei o agnosti­ci, non celebrano riti. Il loro funerale contempla solo la visita alla salma da parte dei parenti. Nel testamento chie­dono di ritornare in Cina, dov’era con­sentita la sepoltura in una tomba sca­vata nella collina più vicina a casa. Ora il governo l’ha proibito, per cui molti resteranno per sempre a Milano».
Pressoché inesistenti anche i rico­veri di cinesi negli ospedali e i parti nelle cliniche ostetriche. «Mia moglie ha accompagnato al Sac­co una signora cinese con minaccia d’aborto non più tardi di due settima­ne fa. E lì la gestante ha trovato una cop­pia di connazionali che vagavano di­sperati nei corridoi perché, non capen­do un’acca di italiano, non sapevano a chi chiedere aiuto. Bisogna anche te­ner conto che la loro medicina cura il corpo dall’esterno, non dall’interno. Se un cinese ha mal di stomaco, non si sottoporrà mai a gastroscopia, ma cer­cherà di farsi visitare da un medico che sappia interpretare i segni della pelle, degli occhi, della lingua».
Pare che abbiano i loro ospedali clandestini, fatti in casa, dove vie­ne prestato ogni genere d’interven­to: dalle cure odontoiatriche alle in­terruzioni di gravidanza. «Sicuramente sarà accaduto in passa­to. Bastava che gli immigrati poveri de­gli anni Ottanta leggessero su una tar­ghetta pinyin, dentista, ed entravano a farsi curare i denti dal primo venuto. Ma adesso dispongono di medici lau­reati sia in Cina sia in Italia, come il dot­tor Zheng Yuanrang, con studio in zo­na Loreto, al quale possono rivolger­si ».
Un primario mi ha raccontato che da una radiografia eseguita su un ci­nese, ricoverato per incidente al pronto soccorso, risultava che il fe­rito fosse privo di organi. L’hanno ripetuta facendogli togliere la ca­nottiera e gli organi sono comparsi come per incanto. Poi s’è scoperto che la biancheria era fatta con fibre d’amianto o qualcosa del genere. «Questa è troppo bella. La devo rac­contare ai miei allievi».
Come si trovano gli italiani che vi­vono nella Chinatown milanese? «In genere bene,anche se l’associazio­ne Vivisarpi sostiene che dal 1999 in poi l’attività commerciale all’ingrosso dei cinesi ha fatto sprofondare il quar­tiere in uno stato di totale degrado».
Gli si può dare torto? «Guardi che sono milanese anch’io, quindi capisco l’obiezione nostalgica: “Ah, cume l’era bela la me Milan!”. L’era bela, sì, ma la torna pù indrè. De­vo fare due chilometri a piedi per com­prare il pane fresco. Pensa che i fornai abbiano chiuso per colpa dei cinesi? Nossignore. Quando fui assunto alla Kellogg’s, la grande distribuzione rappresentava il 20% del mercato; quan­do me andai, nel 1996, era arrivata al 65%. Che colpa ne hanno i cinesi?».
Però se multi un loro commercian­te, scatenano una rivolta, come av­venne nell’aprile 2007 in via Sarpi: 300 immigrati per strada, due ore di guerriglia urbana, auto distrut­te, 14 vigili all’ospedale. «Fu l’unica volta. Il Comune cercava di allontanare il commercio all’ingros­so per alleggerire il traffico cittadino. Da allora si sono organizzati».
Come? «Invece dei furgoni, per il carico e lo scarico delle merci usano le bici con enormi portapacchi».
Ma i cinesi sono ancora maoisti? «Nooo! I giovani non san­no neppure chi fosse Mao. I più vecchi lo ricor­dano come un padre del­la patria, l’uomo che dal feudalesimo li ha traghet­tati verso l’indipenden­za».
Ci sarà ben qualcosa che non le piace dei cinesi. «Sono troppo chiusi e cir­cospetti, formano un gruppo a se stante. Del re­sto un loro proverbio re­cita: “ Avanza tastando le pietre”. Però sono come l’acqua:si adattano al reci­piente che li contiene. E hanno uno spiccato senso dell’umorismo».
Ai milanesi che si sentono assedia­ti dai cinesi, che cosa risponde? «Che Milano si scrive in cinese con due ideogrammi: uno rappresenta il riso, il loro alimento più importante, l’altro l’orchidea, il fiore più bello. E se non dovesse bastare, rispondo con una fra­se che si legge allo scalo di Genova: “ La ricchezza non proviene da coloro che da questo porto partono, ma da coloro che in questo porto arrivano”».