Mario Deaglio, La Stampa 19/3/2013, 19 marzo 2013
ATENE, ERRORE UMANO A NICOSIA DIABOLICO
Errare è umano, perseverare nell’errore è diabolico. E c’è sicuramente qualcosa di diabolico in un’Unione Europea che non ha imparato nulla dagli errori compiuti con la Grecia. Ha condannato i greci ad almeno dieci anni di dura austerità, con un forte costo finanziario per i Paesi membri.
Senza peraltro riuscire a risolvere il problema ma anzi mettendo a repentaglio la stabilità dell’euro. E ora supera se stessa con Cipro: grazie alla goffaggine europea, dopo un anno di trattative, i problemi finanziari dei suoi 800 mila abitanti, un po’ meno di quelli di Torino, riescono a innescare una caduta generalizzata delle Borse mondiali, a riportare ombre sull’euro, già in difficoltà per una recessione largamente artificiale, uscita dal laboratorio di Bruxelles.
Anche ieri, la lentezza dei compassati e impacciati - comunicati ufficiali e semiufficiali ha fatto da contrappunto alla rapidità con cui i mercati declassavano in blocco l’euro, la seconda moneta del mondo. Cipro è diventato il simbolo dell’incapacità europea con le banche chiuse in attesa del soffertissimo voto parlamentare, chiamato ad approvare (forse) oggi una forte imposta patrimoniale sui depositi bancari, che assomiglia a una taglia medievale. A molti italiani fa ancora venire i brividi il ricordo dell’analoga imposta dello 0,6 per cento sui depositi bancari introdotta dal governo Amato, ma quella era una carezza in confronto al 9 e più per cento che, per taluni tipi di depositi, viene proposto per Cipro. Dimenticando che Cipro è il principale punto di passaggio dei capitali russi in uscita e quindi creando una nuova tensione internazionale di cui non si sentiva proprio il bisogno.
Non vi è nessuna ragione logica per cui le crisi dei Paesi in difficoltà strutturali debbano essere risolte in tempi congiunturali, ossia brevissimi: perché sono stati concessi a Grecia, Cipro, Spagna pochissimi anni per raggiungere il pareggio dei bilanci pubblici, perché l’Italia deve arrivarci entro il 2013 e non il 2014 o il 2015 (il mero spostamento dell’obiettivo libererebbe le risorse per una ripresa e quindi la renderebbe molto più facile da realizzare)? Perché alla Francia si consente invece un pareggio di bilancio al 2017 e attualmente un deficit pari al 4,5 per cento del prodotto lordo, ben al di sopra dei parametri del patto di stabilità?
Dietro una simile miopia nei confronti dei Paesi mediterranei (per la quale si distingue spesso il commissario finlandese Olli Rehn) e una simile disparità di trattamento non può mancare il sospetto di un occulto senso di superiorità dei Paesi settentrionali nei confronti della supposta pigrizia dei «mediterranei» e magari persino un’invidia sotterranea per il buon clima e il buon cibo. In realtà ciò che sta veramente bloccando tutto è la pigrizia dei capitali e degli imprenditori tedeschi, e, più in generale, nordici: non utilizzano i fiumi di denaro a buon mercato che l’andamento dei mercati sta mettendo temporaneamente nelle loro mani a un tasso di interesse prossimo allo zero per investimenti industriali e finanziari davvero rilevanti nei Paesi deboli.
Solo così, con un flusso di investimenti paragonabile a quello del Piano Marshall, i tedeschi potrebbero davvero trasformare un predominio finanziario, probabilmente temporaneo, in un primato industriale accettato e condiviso, come fu, a lungo, quello degli americani. Al contrario, si preferiscono investimenti industriali molto vicini alle porte di casa, come in Ungheria, sulla cui deriva autoritaria si preferisce chiudere gli occhi, aspettando di vedere se Angela Merkel sarà confermata alla Cancelleria dopo le prossime elezioni tedesche: non si prendono decisioni vere e si calca la mano su Cipro.
Chi scrive è, come tanti, quasi certamente la maggioranza degli europei, è un sostenitore dell’Europa, intesa come progetto a un tempo civile e culturale oltre che economico. Un’Europa come l’attuale, economicamente frammentata, culturalmente segnata dal ritorno dei particolarismi regionali e linguistici, poco attenta ai problemi di civiltà e libertà sembra invece sentirsi davvero europea solo nel calcio. Non solo non risponde a questo ideale ma non sembra neppure avere un futuro in un mondo globale in cui una struttura portante come la Chiesa Cattolica è diventata, con l’elezione del nuovo Papa, sicuramente meno europea e più universale mentre Paesi un tempo periferici stanno avanzando rapidamente sulla scena. Con il caso di Cipro è appropriato domandarsi se abbia ancora senso un’Europa aggrappata soltanto alla moneta che non sa più guardare avanti, mentre una parte importante del continente sta vivendo una decrescita sempre più infelice.
Da questo piano inclinato occorre uscire verso l’alto, non verso il basso. E forse una spinta in questa direzione può derivare dalla nuova domanda politica, emersa con clamore nelle recenti elezioni italiane: dietro a un teatrale rifiuto dell’euro è possibile trovare, sia pure con qualche fatica, istanze di un’unione non solo economica. Forse il «precariato», individuato dall’economista britannico Guy Standing come una classe sociale emergente, riuscirà là dove il proletariato ha fallito, ossia nell’imbastire, sulla base delle proprie ragioni, un confronto non distruttivo con il mondo dell’economia. Questo potrebbe forse succedere tra breve in Italia e tra non molto in Europa. Speriamo che non si tratti dell’ennesima occasione perduta.