Fabrizio Galimberti, Claudia Galimberti, il Sole 24 Ore 17/3/13, 19 marzo 2013
TROPPO RISPARMIO SPEGNE IL MOTORE DELL’ECONOMIA
La "Favola delle api" forse non è conosciuta come le fiabe di Andersen o dei Fratelli Grimm, ma merita certamente un capitolo: nella storia della letteratura e anche in quella dell’economia. Ho detto storia della letteratura, e non storia della letteratura fiabesca, perché, malgrado il titolo, la Favola delle api non è una fiaba per bambini. È un serio lavoro di satira politica ed economica, vestita da favola per renderla più accattivante.
Allora, cosa dice Bernard de Mandeville (vedi l’articolo a fianco) in questa favola? Lui immagina un alveare operoso (non lo dice, ma parla dell’Inghilterra del suo tempo, all’inizio del Settecento) in cui allignano ricchezza e povertà, in cui coesistono parassiti e sfruttatori, padroni e servi, in cui forti eserciti assicurano il dominio sugli altri alveari, in cui tanti industriosi artigiani fabbricano stoffe preziose per i ricchi e umili tessuti per i poveri, in cui si producono armi e coltelli, in cui «La stessa invidia e l’amor proprio, ministri dell’industria, facevano fiorire le arti e il commercio. Le stravaganze nel mangiare e nella diversità dei cibi, la sontuosità nel vestiario e nel mobilio, malgrado il loro ridicolo, costituivano la parte migliore del commercio». Il tutto in presenza di monarchi il cui potere è limitato (come quello dell’ape regina, che sopravvive solo grazie a uno stuolo di api cortigiane che la servono e la nutrono). Mentre le classi agiate - i fuchi - passeggiano senza far niente lasciando il duro lavoro ai miseri contadini e agli affannati lavoratori manuali (le api operaie).
Ma un bel giorno, nell’Olimpo degli dei, Giove decide di accontentare tutti i membri dell’alveare che, pur beneficiando della prosperità della colonia, lamentano le ingiustizie, le malversazioni e la corruzione. Non sono solo i poveri; anche tanti ricchi o tanti fannulloni chiedono a gran voce, ipocritamente, il ritorno dell’onestà e della morigeratezza. Giove non perde tempo, e in men che non si dica, nell’alveare tutti diventano onesti e modesti, morigerati e frugali.
Il risultato? Tanti, che lavoravano per produrre beni oggi superflui, perdono il lavoro. Non si producono più armi, i nemici dell’alveare lo invadono. Le api resistono e alfine, pur dopo essere state decimate, vincono il nemico. Ma, stremate e ridotte al lumicino, si ritirano nel cavo di un albero, «dove a loro non resta altro, della loro antica felicità, che la contentatura dell’onestà».
Bernard de Mandeville intendeva mettere in ridicolo l’ipocrisia di coloro che condannano l’ostentazione delle ricchezze senza rendersi conto che sono proprio questi "vizi privati" a permettere alle nazioni di crescere, è la ricerca del guadagno che rappresenta la molla per l’espansione dell’economia. Esaltare le virtù della vita semplice e del risparmio vuol dire ignorare che, se Giove con una bacchetta magica facesse tutti frugali e risparmiosi, l’economia si incepperebbe: «Il vizio è tanto necessario in uno Stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa».
Naturalmente, la favola di Mandeville destò scandalo e fu tacciata di attacco alle virtù cristiane. Ma il merito di Mandeville - un merito che fu riconosciuto, implicitamente o esplicitamente, molto più tardi da Adam Smith prima e da John Maynard Keynes poi - fu quello di aver spietatamente spiegato quello che Keynes poi chiamò il "paradosso del risparmio". Che cos’è questo paradosso?
Si tratta di guardare al risparmio in due modi diversi: il micro - cioè a livello individuale - e il macro - a livello collettivo. A livello individuale è difficile criticare il risparmio: mettere da parte dei soldi per i tempi difficili, rinunciare a una spesa presente con l’obiettivo di comprar casa in futuro... è senz’altro una cosa giusta. In Italia esiste addirittura una "Giornata del risparmio" per incoraggiare questa nobile abitudine. Ma, disse Mandeville e dirà più tardi Keynes, che cosa succede se tutti si mettono a rispamiare accanitamente? Se ognuno «porta tutto l’anno lo stesso abito»? Succede che i soldi non circolano più, che l’economia si ferma: il troppo risparmio spegne la caldaia che tiene sotto pressione l’apparato produttivo.
Insomma, disse in pratica de Mandeville, i vizi privati (consumare e spendere e spandere) sono virtù pubbliche. L’affermazione è netta e controversa. Spendere e spandere vuol dire - è vero - far circolare i soldi e dare lavoro a chi produce i beni che si acquistano (argomentando al contrario, Keynes scriverà due secoli dopo: «Ogni volta che risparmiate cinque scellini togliete a un uomo una giornata di lavoro»). Ma, così come il "troppo" risparmio può essere un male, anche la troppa spesa può esserlo, se si spende quel che non si ha e ci si indebita eccessivamente. Mandeville, comunque, non poteva essere troppo equidistante: una provocazione vale se si concentra su uno dei due eccessi, e in quella particolare situazione storica all’autore premeva sopratutto punzecchiare quella doppiezza morale sopra descritta.
I semi gettati dal Nostro furono ripresi anche da Adam Smith, che ottant’anni più tardi scrisse: «Le spese in aggeggi di frivola utilità sono quel che mantiene in movimento l’industria dell’umanità».
Certamente, il problema morale rimane. Le spese frivole sostengono l’economia, e de Mandeville aveva ragione a dire che se cessassero l’economia si fermerebbe. Ma allo stesso tempo questa frivolezza si accompagna a situazioni di povertà e di miseria e di fame che, a tre secoli di distanza dalla Favola delle Api continuano a esistere. Come conciliare, come accettare questi due fatti? L’umanità ancora non c’è riuscita.
Fabrizio Galimberti
QUELL’ANTICO DUELLO TRA I PARTIGIANI DEL LUSSO E I PALADINI DELLA SOBRIETÀ –
La frase, vizi privati e pubbliche virtù è diventata un modo di dire, affermato nel linguaggio quotidiano, ma appare la prima volta nel 1714, come sottotitolo alla seconda edizione del poemetto satirico, "L’alveare scontento ovvero come i furfanti diventano onesti". Nessun sottotitolo poteva essere più appropriato, visto che l’autore esponeva la teoria sociale, prima ancora che economica, in base alla quale ogni vizio privato contribuiva al benessere della società. Un po’ azzardato per il 1700, il secolo in cui Bernard de Mandeville si trovava a vivere e a scrivere. Medico e filosofo olandese, si era trasferito in Inghilterra nel 1693. Visse in Gran Bretagna per il resto della sua vita esercitando la professione di medico e scrivendo varie opere nelle quali trattava di filosofia.
"La favola delle api" è lo scritto, pubblicato in varie edizioni, che gli diede la fama, ma anche la disapprovazione della società puritana dell’epoca. Nell’Inghilterra d’inizio secolo la rivoluzione industriale stava decollando e con essa un nuovo assetto sociale basato su una divisione delle mansioni e della ricchezza differente dai decenni precedenti. Mandeville, attraverso l’allegoria della vita di un laborioso alveare vuole smascherare l’ipocrisia di una società che si professa "perbene", ma che in realtà nasconde, sotto la copertura dell’ordine e del rispetto delle regole, la disonestà e l’avidità.
Possiamo concordare sul fatto che la morale impone di controllare i vizi, ma è indubbio che il vizio del lusso, inteso in senso largo come amore per le belle cose, fornisce uno stimolo alla produzione molto più interessante della parsimonia. La ricaduta economica di questa teoria è spiegata nell’articolo a fianco, ma i contemporanei come reagirono di fronte a questo inno ai vizi?
Bisogna risalire ad Aristotele e alla sua condanna della "cremastica", cioè dell’arte di arricchirsi attraverso il commercio, per capire come l’economia sia stata tacciata d’immoralità sin dall’antichità. Bernard de Mandeville annulla questa maledizione che grava sull’economia facendo l’elogio del lusso e dello sperpero; l’alveare vizioso è prospero, quello virtuoso è povero. Era evidente che la Chiesa non avrebbe perso tempo a condannare Mandeville: la favola fu messa all’indice, e lo è tuttora. Fu portato in tribunale e si difese da solo contro le calunnie della Giuria d’accusa del Middlesex. Ma la "Favola delle api", è uno dei testi fondamentali del pensiero filosofico ed economico del Settecento e dell’Illuminismo. Questo suo quadro di una società nella quale il bene comune arriva attraverso il vizio privato e la realizzazione del benessere non è incompatibile col perseguire il proprio interesse, sembra anticipare di decenni la mano invisibile di Adam Smith (ne abbiamo parlato nel Sole Junior del 12-2-12). Bernard de Mandeville in successivi scritti anticipò altre intuizioni che poi furono ascritte ad Adam Smith: per esempio, i benefici della divisione del lavoro. I "tuttofare" non sono benefici per l’economia: bisogna che ognuno si specializzi in quello che sa fare meglio, fosse anche solo una fase della fabbricazione, mettiamo, di un orologio. Specializzandosi farà quel particolare lavoro con sempre migliori risultati e tutta l’economia diventerà più produttiva.
Claudia Galimberti