Malcolm Pagani, il Fatto Quotidiano 17/3/2013, 17 marzo 2013
“IO E ER MONNEZZA, SEMPRE STATI COMUNISTI”
Anyway, cada dìa e tutte le supplenze linguistiche che 80 anni da randagio del controcampo trasformano in inalienabile diritto. Con il timbro musicale di una Spagna di frontiera, il basco da esistenzialista, le felpe larghe e il codino di un’epoca che fu, Tomás Milian è una voce che ti porta altrove e non è mai la stessa. Oltre cento film, molti premi. Discese ardite e risalite. Cannes, Venezia, Visconti, Antonioni, Bertolucci, Spielberg. Il mondo del Monnezza o di Er Pirata, popolato dai Sergio Marazzi e dai Nico Giraldi, dai pregiudizi e dalla popolarità, su cui sta scrivendo un libro di memorie, Monnezza amore mio. E poi il Milìan di Cuba, quello che con voce sofferta e generosa apertura, proietta spezzoni di adolescenze in presa diretta e senza lieto fine: “È il 31 dicembre 1945, ho 12 anni e siamo invitati a un veglione di mezzanotte. Prima di uscire mio padre, un militare severo e un uomo malato, mi dà un colpetto sulla gamba e fa segno di sedermi. Penso, ‘adesso mi fa il discorso da bravo papà e da domani me le dà di nuovo. Invece parla come non aveva fatto mai. “Tommy, ormai sei un ometto. Io sono molto stanco, occupati di tua madre e di tua sorella”. Dopo la festa siamo torniamo nel maniero coloniale dei nonni con il grande patio al centro e le architetture moresche. A un certo punto, vedo riflessa in uno specchio la figura di mia madre che corre. Sta piangendo. Senza chiedere il permesso raggiungo il piano superiore e inizio a gridare: “Papà, papà”. Nessuna risposta. Allora apro la porta della sua stanza e lo trovo in divisa. La pistola nella fondina. Guarda davanti a sé, tira fuori la 45 automatica e la punta verso di me. “Adesso mi uccide” penso. Poi si gira e si spara. Istintivamente mi precipito al telefono e mentre do l’allarme, mi accorgo di una cosa terribile. Non provo dolore, ma un senso di liberazione. Sto fingendo. Sto recitando. Fingo un piglio insincero. Faccio cadere la cornetta e mi mostro sconvolto. E quando inizio a correre verso casa della nonna accelero perché la fatica si trasformi in pianto e nel momento dell’abbraccio, non si intuisca l’artificio. Mio padre aveva fatto carriera nell’esercito. Era un duro. Ricordo che ero infelice. Scrivevo piccole commedie di teatro, papà le detestava: “È roba da froci”.
A Cuba torna mai?
Io non mi sento cubano, ma italiano. Da voi sono arrivato da ragazzo, mi sono fermato, ho raggiunto la maturità. La chiave, se esiste, della mia bravura . Sono un figlio di mignotta, magari un furbo, ma ho un difetto. Credo a tutto, non dubito di niente e mi fido dell’istinto.
L’isola la lasciò presto.
Ho abbandonato Cuba per Miami a 22 anni con un biglietto di sola andata. Sapevo che non sarei tornato indietro.
Persone fondamentali?
Se mi concentro su quell’epoca vedo la mia ricchissima zia, la chiave della mia carriera, la vedova di Josè Pepe Cadenas, il rettore dell’Università. Io disegnavo e sui libri di scuola non riuscivo a concentrarmi. Li guardavo e invece di leggerli viaggiavo da un’altra parte. Mia zia l’aveva capito. Un giorno mi prese da parte: “Che vuoi fare nella vita? Lo chaperon di una diva, il ballerino con tacco 12, il conquistatore?”. Dopo aver visto La Valle dell’Eden e Jimmy Dean avevo una sola certezza. Avrei fatto l’attore. La zia mi aiutò a raggiungere Miami e lì mi andò bene. La mia insegnante in Florida mi segnalò all’Actors Studio. New York. Una stanza ad Harlem, in un’atmosfera da West Side Story. Neri e portoricani dominavano l’orizzonte.
Si trovò bene?
Ho sempre creduto al destino. C’era un filosofo che diceva: “Go with the flow”. La corrente mi ha sempre portato nel posto giusto. Io ero l’irredimibile. Pecora nera della famiglia. New York era un sogno. Non parlavo inglese e stavo per entrare senza valigia, punti fermi e stabilità nel tempio di Brando, Mongtgomery Clift e Paul Newman. Ritiravo piatti sporchi, consegnavo lettere, mi spaccavo la schiena. Se penso che oggi dell’Actor Studio sono membro a vita mi sento male.
Lei frequentava i corsi?
L’Actors era un’oasi speciale e guai a chi la chiamava scuola. Lì non si studiava, ma al centro delle illusioni, come ci dicevano con aria da intellettuali, si esplorava. Lee Strasberg ci catechizzava: “Recitare seriamente”. Una sera incontro Marilyn Monroe, mi presento, vedo che si mette il cappotto. Azzardo: “Sei di corsa?”. E lei: “ Vado a prendere un caffè”. Mi offro, le porto un espresso, diventiamo amici.
Nel ’58 arriva in Italia.
Jean Cocteau e Gian Carlo Menotti mi stimavano. Con Menotti avevo avuto un incontro surreale in un albergo di New York pochi mesi prima. Sapevo che si sarebbe fermato per poche ore e decisi di farmi avanti. Non sapevo nulla di frequentazioni mondane, ero pallidissimo e pensai di farmi bello. Chiesi aiuto a un’amica, mi cosparsi il volto di crema al carotene e andai dal maestro. Piombai in hotel con la faccia chiazzata di arancione. Mi presentai, Menotti mi trattò freddamente e a me scappò un insulto di rara grevità. Mentre andavo via, mi sentii richiamare a gran voce. Era lui.
Tornò indietro?
Certo e feci benissimo. Mi abbracciò. Mi commossi. Arrivare lì non era stato semplice. In un certo senso iniziavo a vendermi. Non si può avere dignità in questo mestiere e la superbia è vivamente sconsigliata.
Ebbe la parte ne “Il poeta e la musa”e volò a Spoleto.
“Non so cantare” dissi e loro: “Il personaggio è sordomuto”. Dovevamo mettere in scena un testo di Jean Cocteau, ma presi l’occasione troppo sul serio e ingelosii il mimo che recitava con me. A due giorni del debutto me la fece pagare. Mi tese una trappola facendomi cadere dal palco. Un volo tremendo, 28 punti di sutura. Avrei dovuto tenere con il braccio un lembo di sipario. Impossibile in quelle condizioni Così cambiai il copione tagliando una scena e alterando il finale. Il produttore scioccato contattò Cocteau e Jean spedì un telegramma: “Complimenti per il coraggio”. Ce l’ho ancora. Alla prima vennero Ferreri e Bolognini, il resto è storia.
Riscrivere le battute è un vizio antico.
Ho sempre rispettato il valore dello sceneggiatore, ma girando a Roma, usare le frasi che avrebbero detto i veri romani, per me era troppo importante. Modificare il copione mi sembrava naturale.
Questione di osservazione?
Io non osservavo gli altri. Li studiavo. Avevano un linguaggio tutto loro, i romani. Un gusto per la freddura. Per la poesia della parolaccia. Al regista Umberto Lenzi devo veramente molto, però capitava di discutere. Di litigare, anche, per una battuta da inserire all’ultimo istante. In Roma a Mano Armata, quando mi fermo a far benzina, la trovata di sceneggiatura non mi convinceva. Lo faccio notare a Lenzi e mi chiudo nella roulotte: “Due minuti di pausa, ho bisogno di pensare”. Esco e vado dal regista: “Qual è il nome del benzinaio? Diamogliene uno che mi permetta la rima con cazzo, per esempio Galeazzo”.
Lenzi è contrario?
Furibondo: “Tu sei pazzo, è volgarissimo”. Allora chiamo Luciano Martino, il produttore e ottengo il via libera: “L’importante è che non litighiate”. Così giriamo.Alla prima del film, quando chiedo al benzinaio come si chiama, lui risponde “La Pira Galeazzo” e io fuggo senza pagarlo: “Non ho una lira e tu ti attacchi al cazzo”, venne giù il cinema. Con Lenzi qualche frizione esisteva. Io improvvisavo e lui protestava: “Ma sul copione c’è scritta una cosa precisa” e io: “Mi va di dirla in un altro modo”. La parolaccia detta bene piaceva. Avevo ragione, ma una cosa a Lenzi la concedo.
Quale, Milian?
A volte mi comportavo da gran rompicoglioni. Ma se devo essere retorico, le dico che per capire chi c’è dietro di me, basta guardare il dolore che ho negli occhi. Se sono lo specchio dell’anima, lì troverà tutto quello che ho visto e che non ho dimenticato. Quello che non ho voluto o potuto rimuovere. Sono sincero. E nelle cose che facevo mettevo tutto e anche di più. Il pubblico lo capiva.
I soldi erano importanti?
Dovevo mangiare, ma non resistevo alla tentazione di dividere con gli altri. Avevo per il denaro lo stesso attaccamento che si può nutrire per le banconote del Monòpoli. Mi ricordo il primo stipendio avuto da Cristaldi, 300.000 lire al mese. Bigliettoni larghi come lenzuola. Andavo a far festa in Piazza di Spagna con gli amici miei, tutti poracci. E dividevo con loro, regalando. A uno la cucina elettrica, all’altro il giradischi. Mi faceva star bene, limitava i sensi di colpa, il peccato originario, l’estrazione borghese.
L’impatto con Roma?
Una stanza miserabile in via Due macelli, di fronte a casa Zeffirelli. Nei primi tempi mi diseducai. Parlavo più spagnolo che italiano e gli amici mi insegnavano il dialetto e l’intero alfabeto delle formule sconvenienti. Passava una bella ragazza e il gruppo diventava una voce sola: “Tòmas, quella a Roma si chiama bella fregna”. Qualche sera dopo, a un ricevimento a fitta densità aristocratica, mi presentano una contessa. Mi lascio andare “Bellissima, bellissima, gran bella fregna”. La mia vicina sbianca: “Tòmás, ma che dice?”.
Poi cambiò casa?
Dopo Via Due Macelli, venne la tana di Villa Borghese, 60.000 lire al mese, una specie di capanna dello Zio Tom nascosta nei misteri di via Margutta, dietro una porticina che tra le felci introduceva a un sentiero coperto dalla vegetazione. Era una sistemazione assurda, fantastica, c’era un via vai frenetico. Per vedere di persona l’uccello esotico venivano tutti. Non ero male, va detto. L’Harpers’s Bazar fece fotografare i 10 ragazzi più ambiti del mondo. Io e nella stessa pagina Warren Beatty: “Bello e perverso”.
Bandito, perdigiorno o poliziotto, il Tomas di Roma guarda al popolo.
C’era una canzone di Antonello Venditti che adoravo. Una poesia che volli a tutti i costi mettere in alcune sequenze de La Banda del gobbo. Si intitola Sora Rosa. Parla di indignazione, rabbia e rivolta. Rubai due righe al testo e le misi in un lungo monologo al centro del film.
Quasi un comizio politico. Il bandìto di borgata sequestra i clienti di un night e prima di rapinarli e purgarli con il sale inglese gli propina una lezione su diritti, soprusi, ricchezza e povertà.
Sono sempre stato comunista. Il cuore a sinistra e il portafogli a destra. Ero strano, avevo dei primàti. Sono stato l’unico cubano capace di far credere a tutti che fossi nato a Roma. Alcuni attori italiani mi consideravano un usurpatore. Ero il cubano che occupava il posto di un indigeno. L’abusivo. Un riflesso umano. Capivo
Centodieci film.
Mi ricordo la prima volta. Bolognini che mi offre un ruolo per La notte brava e mi avverte “qui si doppia”. E io: “Che vuol dire? Che c’è un altro che parla al posto mio?”. Avevo dei dubbi, ma non potevo fare troppo lo schizzinoso. Iniziò così.
Cristaldi la mise sotto contratto con la Vides.
In pochi anni girai film importanti. Visconti, Lattuada, Pasolini, Maselli, Loy. A Nanni e a Citto sono molto affezionato. Maselli era intelligentissimo. Durante la lavorazione de I delfini e poi sul set de Gli indifferenti mi sussurrò i consigli che mio padre non mi diede mai. Con i registi di solito avevo un rapporto dialettico. Alcuni sostenevano che fossi difficile da dirigere. Non sapevano come prendermi, optavano, sbagliando per il salamelecco inutile. In ogni caso, era una vita da nomadi. Finito il film, finiva anche l’amicizia.
Sul set dei western all’italiana conobbe Sollima.
Altro signore meraviglioso. Il genere mi divertiva molto. Si girava in Almería e a Madrid. Solo più tardi, per risparmiare, il circo traslocò a Manziana. Poche settimane, ritmi frenetici, molta azione, cavalli, pistole e un cotè di fondo, sorprendentemente iperintellettuale verso cui il produttore Cristaldi covava una passione sincera.
Bounty Killer, La resa dei conti, Tepepa, Corri uomo corri, Se sei vivo spara.
Erano grandi successi, sui set capitava di tutto. Avventure, litigi, sperimentazioni avanguardiste. Nel grande duello con Lee Van Cleef, feci un tuffo non metaforico nella merda. Il porcile era vero e non ci fu il tempo di trasformare il fango in cioccolata. Discussi aspramente con Orson Welles che si era presentato svogliatissimo per girare Tepepa e divenni grande amico di Franco Nero, simpaticissimo, sul set di Vamos a Matar Compañeros.
Sul tema Manlio Gomarasca racconta una storia stupenda.
Franco era un maniaco del trucco. Passava ore a rifinire dorature di capelli e ciglia, a farsi disegnare rughe che non aveva. Mi incuriosii: “Franco perché vuoi sembrare più vecchio della tua età?”. La risposta mi fulminò: “Non voglio che tra 30 anni si dica ‘quanto è invecchiato’, voglio fare l’attore per sempre”.
Tarantino lo ha dipinto nella sua rilettura di Django.
Sono contento, quel cinema del decennio ’60, ’70 avversato dalla critica parruccona aveva bravi attori e straordinari tecnici. I migliori artigiani della nostra tradizione.
Lei passava da “Er Pirata” a Bertolucci, dal Monnezza ad Antonioni. Contestualmente.
Mai fatta una classifica dei miei personaggi. Al Monnezza, a Bombolo e a quel periodo vorrò bene per sempre. Un ciclo finì, desideravo cambiare e tornai in America. Adesso nonostante avessi deciso di ritirarmi, sono tornato per girare a Roma con Giuseppe Ferrara. In Come tutto ebbe inizio ho messo l’anima. Spero si veda, spero si capisca.
Un crudo prepoliziottesco, non troppo dissimile da quelli che girava con Maurizio Merli. Altro rapporto dialettico, vero?
Furbo. Allora è un po figlio di mignotta anche lei?
Non lo escludo.
Le hanno raccontato che io e Merli ci siamo presi a cazzotti, giusto? E magari vorrebbe che glielo confermassi.
Più o meno.
Non è vero niente. Adesso Maurizio non c’è più e parlarne non è delicato. Su alcune cose mi sono confuso, ma del rispetto ho sempre avuto un’idea precisa.