Paola Zanca, il Fatto Quotidiano 17/3/2013, 17 marzo 2013
LACRIME, URLA E VOTI LA RIVOLTA DEI SICILIANI DIVIDE IL MOVIMENTO
"Io un mafioso presidente del Senato non lo votooooo!". La voce di donna tuona dietro la porta della commissione Industria, terzo piano di palazzo Madama. I 54 senatori Cinque Stelle, da quasi due ore sono chiusi lì dentro, a scannarsi su chi votare al ballottaggio tra Pietro Grasso e Renato Schifani. Vorrebbero restare fuori dai giochi, ma il Pd non ha i numeri e senza di loro, rischia di vincere il candidato del Pdl. I montiani sono riuniti pochi metri più in là, bisognerebbe capire che fanno: ma il rischio, nel segreto dell’urna, si corre lo stesso. A dare battaglia sono i sei siciliani, capitanati da Mario Giarrusso. Sono loro a spiegare ai colleghi che non si scherza, che se viene rieletto Schifani quando tornano a casa gli fanno “un mazzo così”. Urlano, piangono, battono i pugni sul tavolo, per quattro volte partono gli applausi, sui computer si controlla cosa dice la base. Nessuna risposta nemmeno dalla Rete: “È spaccata a metà”. Qualcuno se la prende con Casaleggio: se ci fosse la piattaforma, potremmo chiedere agli attivisti cosa fare. Altri si lamentano perché Grillo li ha buttati in acqua, “come bambini che non sanno nuotare” (ieri, nessun post, solo un commento sul nuovo papa e le “affinità tra il francescanesimo e il M5S”). Arriva un messaggio di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo. Li implora di votare Grasso. Di nuovo lacrime, di nuovo urla. Dentro ci sono le telecamere della tv danese alle prese con un documentario sul Movimento. I cronisti italiani sono fuori, ma sentono tutto. Due minuti prima delle 16, esce un collaboratore: “Scusate, siamo alle battute finali, dovreste spostarvi”. Troppo tardi. “Mario sei scorretto! - grida un’altra donna rivolgendosi a Giarrusso - Io non mi voglio assumere la responsabilità di votare né quello del Pd né quello del Pdl”. Vito Crimi, il capogruppo, cerca di riportare la calma: “Potete stare zitti? Vogliamo votare?”. Raccontano che anche lui, siciliano trapiantato a Brescia, sia dilaniato dai dubbi. Ma non può spaccare il gruppo al secondo giorno di legislatura. Alla fine non votano. Non si vogliono contare. Il toscano Maurizio Romani esce piuttosto provato. Recita il solito mantra: “Uno vale uno”. E mai come questa volta è vero.
IL GRUPPO ha deciso: libertà di coscienza. Ma non si può ammettere davanti ai giornalisti. I siciliani lo scrivono su Facebook, Crimi dichiara che il gruppo “ritiene di non modificare le proprie intenzioni di voto”. Scheda bianca, nulla, astensione? Non risponde e così permette a chi non se la sente “di vedere rieletta una persona come Schifani” di muoversi liberamente nella nebbia del voto segreto. Alla fine sono una decina i Cinque Stelle che scrivono il nome di Grasso sulla scheda. Ai 6 siciliani (Giarrusso, Campanella, Santangelo, Catalfo, Bocchino e Bertorotta) si aggiungono il napoletano Bartolomeo Pepe, il calabrese Maurizio Molinari, il pugliese Maurizio Buccarella, forse anche Luis Alberto Orellana. Per inquadrarli basta osservare il momento della proclamazione di Grasso presidente. Quando si annuncia il risultato, i Cinque Stelle non applaudono. I siciliani sembrano statue di cera. I piemontesi Carlo Martelli e Alberto Airola li osservano: Martelli li indica e scuote la testa. Intanto Schifani è andato a stringere la mano a Grasso: parte un secondo applauso. I siciliani si alzano, guardano verso i banchi di dietro. Niente, gli altri sono tutti seduti. Terzo applauso, la proclamazione. Giarrusso si alza, fa cenno ai compagni. Stavolta sono tutti in piedi, ma non applaude nessuno. Quando Grasso comincia a parlare, Giarrusso si arrende, batte la mani. Lo fanno in una decina. Lui si gira verso la pugliese Barbara Lezzi, allarga le braccia come a dire “su, dai”. Lei resta immobile.
È LA PRIMA IMMAGINE delle due anime del Movimento, messe a nudo dalla mossa del Pd. I Cinque Stelle dicono che per loro è già una vittoria, che senza i grillini in Parlamento, Laura Boldrini e Pietro Grasso non sarebbero mai arrivati dove sono. Ma lo smacco è evidente: quando hanno letto i nomi dei candidati del Pd, ieri mattina, sono rimasti tutti di sasso. Delusi perché su questi nomi un dialogo si poteva intavolare; arrabbiati perché alla fine la Camera anziché a loro, che hanno il 25 per cento, è andata a Sel che ha poco più del 3; risentiti perchè il Pd per la prima volta li ha messi con le spalle al muro. “Vogliono farci sbilanciare - spiega il deputato Andrea Cecconi - Ma per noi sarebbe il suicidio”. Il rischio di restare in piccionaia, però, non è da meno. Adesso la partita è per i questori, le presidenze delle commissioni, magari il Copasir. Ieri, una delegazione di deputati ha già posto il problema alla presidente Boldrini: vorrebbero due vicepresidenti, un questore (Carla Ruocco e Laura Castelli in pole position) e un segretario. “Ci spettano come primo partito - dicono - Ma è una prassi che non è scritta in nessun regolamento”.