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 2013  marzo 16 Sabato calendario

LA TV BECERA DEL CAVALIERE? FATTA E IDEATA DA RADICAL CHIC

Fra le tante colpe che rimproverano a Silvio Berlusconi c’è quella di aver involgarito i program­mi televisivi e, quindi, di aver corrotto la cultura, ab­bassandone il livello sotto lo zero. È un’accusa pesante quanto infondata che i cosid­detti intellettuali, un tempo organici al Pci e ora ai propri interessi, rivolgono quoti­dianamente al Demonio An­tennuto, considerato la cau­sa dell’imbarbarimento ita­liano. Da trent’anni le satani­che emittenti commerciali, prima Fininvest poi Media­set, vengono processate e at­taccate dai compagnucci mai rassegnati alla liberaliz­zazione dell’etere risalente al 1976. Allora Berlusconi era un palazzinaro, per usa­re un’espressione romane­sca. Costruiva condomini, di più: città (vedi Milano 2 e Milano 3). Quando il vecchio mono­polio Rai cominciò a scric­chiolare strattonato dalla proliferazione delle emitten­ti locali, il Dottore (come era chiamato allora l’imprendi­tore milanese) ebbe un’intuizione: piatto ric­co mi ci ficco. Nessuno suppo­neva che il futuro della comu­nicazione fosse legato allo svi­luppo, che sarebbe stato enor­me, delle piccole e artigianali antenne cui era stato dato il permesso di nascere nel ri­stretto ambito di una provin­cia.
Ai primordi, si pensava che i pionieri delle tivù commercia­li, alimentate solamente dalla pubblicità (niente canone), sarebbero stati costretti a por­tare presto i libri in tribunale e dichiarare fallimento. E in ef­fetti molti fecero una brutta fi­ne. Il Cavaliere, da buon ulti­mo arrivato nella prateria, esa­minò ciò che vi accadeva ed evitò gli errori commessi da al­tri per insufficienza di mezzi. Creò Telemilano affidando­ne la direzione a Vittorio But­tafava, già valente direttore del settimanale Oggi , una macchina da soldi. Sembrava un gioco, il soddisfacimento di uno sfizio, un’iniziativa vel­leitaria. I critici, tra cui c’ero anch’io, ipotizzarono una morte imminente di quello che era definito un «videocito­fono di lusso». Non avevano calcolato che il palazzinaro vi­sionario avrebbe investito montagne di denaro, sgomi­nando la concorrenza e impo­nendosi sul mercato quale unico competitor della Rai.
Egli infatti, infischiandose­ne dei nostri risolini ironici, si preparò il terreno per fare il botto. E lo fece col calcio; orga­nizzò il Mundialito - sull’on­da del successo degli Azzurri in Spagna, nel 1982: titolo mondiale - e mandò in onda le partite, suscitando l’entu­siasmo degli appassionati di pallone. Gli ascolti crebbero a dismisura, picchi mostruosi. Nel frattempo Telemilano era diventata Canale 5. E i mono­polisti politicizzati di viale Mazzini, avvezzi a pascolare indisturbati e solitari, trema­rono. Si resero conto che la pacchia era finita: addio domi­nio statale dei teleschermi.
Berlusconi comprese che si trattava di insistere. Scucì al­tri quattrini, parecchi. Com­prò i programmi- belli e brutti - disponibili sulla piazza. E il videocitofono si trasformò in colosso indebolendo tutte le tivù private più piccole. Non bastava. Acquistò Italia 1 da Edilio Rusconi per avere una seconda rete. Ma ce ne voleva­no tre, secondo i suoi piani da megalomane. Bussò pertanto alla porta della Mondadori che si era imbarcata in un’av­ventura folle con Rete 4 (fon­data da me con alcuni amici e ceduta in attivo alla casa edi­trice di Segrate). L’uscio si aprì e Silvio si portò a casa la terza rete, indispensabile per completare il pacchetto e af­frontare la Rai ad armi pari.
Il più era fatto. I contenitori erano pronti, mancavano i contenuti che non si poteva­no improvvisare, occorreva produrli. Il Cavaliere, grazie al sostegno delle banche per­suase dalla bontà del proget­to, assunse vari specialisti (tecnici e uomini di spettaco­lo) e avviò la realizzazione di alcuni programmi, rastrellan­done in quantità anche di già confezionati all’estero.Rima­neva da risolvere il problema dei problemi: come mandarli in onda alla stessa ora in tutto il Paese? Infatti, la cosiddetta interconnessione era vietata in base a una norma pasticcia­ta che concedeva soltanto al­la Rai il privilegio di essere emittente nazionale. Finin­vest era penalizzata; il potere legislativo si guardava dall’ap­provare nuove regole che prendessero atto della realtà televisiva mutata in conse­guenza della liberalizzazione dell’etere.
C’erano forti resistenze poli­tiche: la maggioranza dei par­titi temeva che Berlusconi fa­cesse strage di ascolti, influen­zando l’opinione pubblica e, quindi, il voto, i risultati eletto­rali. In sostanza, i governi del­l’epoca desideravano mante­nere il controllo di quanto ap­pariva sui teleschermi, la­sciando pro forma ai privati soltanto le briciole. Berlusco­ni aggirò l’ostacolo organiz­zando una distribuzione ca­pillare di videocassette (na­stri dei programmi registrati) in modo che dalle Alpi alla Si­cilia la sua produzione fosse in grado di essere trasmessa in perfetto orario su ogni tele­visore della penisola. Una fur­bata. Che un pretore, ovvia­mente d’assalto, sgamò e cer­cò di azzerare.
Servì l’intervento del presi­dente del Consiglio, Bettino Craxi, amico del Cavaliere, per annullare il decreto che azzoppava la Fininvest. Un fa­vore o un atto di giustizia? Di­pende dai punti di vista. La mossa del premier comun­que aprì la strada alla cosid­detta legge Mammì che, a vent’anni dall’avvento delle antenne commerciali, mise ordine nel settore. Pratica­mente, il monopolio si trasfor­mò in duopolio. Altre emitten­ti (eccetto Sky, entrata in fun­zione in tempi recenti) non ebbero l’opportunità di sfon­dare. A questo punto, le tv del Biscione furono obbligate a dare spazio all’informazione: telegiornali a tutto spiano. E qui Berlusconi, per quanto bombardato dalle critiche di qualsiasi segno politico, fece un capolavoro. Affidò a un gio­vanissimo Enrico Mentana il Tg di Canale 5 e a Emilio Fede ( il vero iniziatore del giornali­smo televisivo nelle «com­merciali ») i Tg di Italia 1 e Re­te 4.
Chicco rivoluzionò, col suo modo di condurre, i notiziari e ancora oggi, passato a La7, egli è giudicato il miglior ta­lento nel suo campo. Di Men­tana si potrà dire tutto tranne che sia stato asservito anche solo dieci minuti al leader del centrodestra. Nonostante ciò, per oltre 15 anni, l’infor­mazione di Canale 5 è stata tacciata di berlusconismo. Oggettivamente, una balla. Qualcuno obietterà che però il Tg di Fede è stato per lustri un esempio di partigianeria politica, una specie di Telesil­vio. Non c’è dubbio. Come non c’è dubbio che il notizia­rio di Raitre sia smaccatamen­te progressista. Ma la polemi­ca antiberlusconiana è violen­ta e trascura l’obiettività. Se un Tg è di sinistra va bene, se è di destra è uno scandalo.
Lo stesso criterio fazioso è stato adottato nel valutare ogni altro tipo di trasmissio­ne: i varietà della Rai, per quanto pessimi, erano e sono tollerati, perfino quelli, innu­merevoli e tutti uguali, di Raf­faella Carrà; quelli di Media­set sono invece indegni, ali­mentano la sottocultura, rim­bambiscono il pubblico e lo rendono incapace di intende­re e di volere, piegandolo al cattivo gusto di marca berlu­sconiana. Siamo all’assurdo. Si ignora sfacciatamente che l’impronta alla produzione Mediaset è stata impressa da specialisti di sinistra: Carlo Freccero, un fuoriclasse ros­so fuoco; Antonio Ricci, altro fuoriclasse di seme progressi­sta, ideatore di Striscia la noti­zia e Drive in, per citare due si­gnori autori di programmi cult.
Mi preme poi osservare che il direttore delle reti berlusco­niane più duraturo è stato Giorgio Gori ovvero lo spin doctor di Matteo Renzi che, se non sbaglio, è del Pd, avendo inoltre partecipato alle prima­rie del partito di Pier Luigi Ber­sani. Contro ogni evidenza, si continua però a dire: le tv di Sua Emittenza hanno provo­cato un disastro etico incre­mentando il più bieco berlu­sconismo e inquinando la mentalità dei connazionali. Si sorvola anche sul particola­re che l’ 80% di chi lavora a Me­diaset si vanta di essere anti Pdl ed è iscritto al sindacato paleolitico di stampo comuni­sta.
Se rispondesse a verità che il Biscione ha distrutto il buon gusto dei telespettatori abituandoli al peggio, la re­sponsabilità sarebbe della si­nistra, cui appartengono tutti gli autori, gli attori, i comici (Zelig) e addirittura i tecnici delle luci, i cameramen e i truccatori pagati dal «duce» di Arcore. I più feroci opposi­tori di Canale 5 e affini forse non sanno che i format più dif­fusi utilizzati sia dalla Rai sia da Mediaset provengono da­gli stessi fornitori statuniten­si e inglesi. Né sanno che or­mai la tv è globalizzata, per cui mezzo mondo usufruisce delle medesime immagini, dei medesimi telefilm, delle medesime schifezze seriali.
Il sistema televisivo è identi­co in decine di Paesi e ha pro­vocato un appiattimento pe­raltro inevitabile essendo do­vuto all’esigenza di contene­re le spese. Se ignoranza signi­fica ancora essere disinforma­ti e avere il cervello ottuso, mi pare che ignoranti siano dun­que gli intelligentoni che attri­buiscono a Mediaset di aver bacato la testa del popolo. È il contrario. Sono gli intelligen­toni (cretini) a non capire do­ve sia la verità: si illudono di averla in tasca.