Morya Longo, Il Sole 24 Ore 16/3/2013, 16 marzo 2013
UN RISCHIO CHE VALE 9 VOLTE IL PIL GLOBALE
«Probabilmente con queste parole non diventerò popolare tra i colleghi, ma penso che i derivati dovrebbero essere praticamente tutti regolati in casse di compensazione e dovrebbero essere scambiati in Borsa». Vikram Pandit, ex amministratore delegato di Citigroup, recentemente ha rotto il ghiaccio: non capita spesso che un banchiere del suo calibro, fino a poco tempo fa alla guida di una delle istituzioni finanziarie più grandi al mondo, invochi trasparenza sull’immenso mercato dei derivati dove le banche fanno soldi veri.
Peccato che Pandit non sia più alla guida della banca. Peccato che gran parte dei suoi colleghi la pensi diversamente. Peccato che, a 5 anni dallo scoppio della crisi causata anche dall’utilizzo scriteriato dei derivati, questi strumenti finanziari continuino ad aumentare nell’opacità: ormai – secondo la Bri – ammontano nel mondo a 638mila miliardi di dollari. Si tratta di circa 9 volte più del Pil del mondo intero. Cioè il 7% in più rispetto ai livelli del 2007. Ma ora le regole, più in Europa che negli Usa, iniziano a cambiare.
Espansione continua
Questi strumenti finanziari sono molto utili, perché servono a imprese e banche per assicurarsi da vari rischi: per esempio dalla fluttuazione dei tassi o dei cambi. Ma nell’ultimo decennio c’è stato un vero e proprio abuso: i derivati sono proliferati come funghi, perdendo troppo spesso la loro vocazione originaria (strumenti di copertura dei rischi) per assumerne una nuova (strumenti per speculare). Sono diventati, come disse il finanziere Warren Buffett, strumenti «di distruzione di massa».
Così ormai da anni esistono su molte aziende più credit default swap (assicurazioni contro l’insolvenza sui debiti) che debiti stessi. Il gruppo Alcoa, per fare un solo esempio, ha debiti lordi per 8,8 miliardi di dollari (secondo il bilancio 2012) ma ha credit default swap per 26 miliardi di dollari (dati Dtcc): le assicurazioni sul debito in mano agli investitori, insomma, sono quasi tre volte maggiori del debito stesso. È come se una persona assicurasse tre auto per furto e incendio, pur possedendone una sola.
Ma le assurdità non finiscono qui. Esistono banche che hanno in bilancio così tanti derivati da superare, da sole, il Pil del mondo. JP Morgan, secondo i dati dell’Office of the Comptroller, ha in pancia derivati per 70mila miliardi di dollari. Bank of America per 65mila miliardi. Citigroup per 51mila. Per non parlare delle innumerevoli truffe ai danni di Enti locali o dei "buchi" che ogni tanto si scoprono qua e là nei bilanci delle banche. Non serve un genio per capire che un mercato così gigantesco andrebbe non solo regolamentato, ma dovrebbe essere trattato da sorvegliato speciale.
Regole in arrivo
Invece gli scambi su derivati avvengono, nell’era della digitalizzazione più spinta, ancora al telefono tra trader: pochi derivati sono comprati e venduti su piattaforme tecnologiche. Il motivo è ovvio: le grandi banche guadagnano moltissimi soldi da questa opacità, perché essendo market maker (coloro che fanno il mercato e decidono i prezzi denaro-lettera) fanno il bello e il cattivo tempo. Ed essendo le banche grandi finanziatrici della politica (nel 2012 il settore finanziario negli Usa è stato il secondo più generoso con i partiti americani), premono affinché le regole non cambino.
Ma i primi passi in avanti si stanno muovendo. In America è appena diventato obbligatorio regolare alcuni derivati attraverso clearing house (un passo avanti per ridurre i rischi), anche se la strada per spostare gli scambi su piattaforme trasparenti e regolamentate è ancora lunga. In Europa la direttiva Emir (si veda pagina 5) fa qualche passo in più nella direzione della trasparenza. Iniziative simili sono in corso anche in Asia. La speranza è che, prima o poi, i derivati tornino quello che erano: strumenti per ridurre i rischi, non per moltiplicarli.
m.longo@ilsole24ore.com