Antonio Gnoli, la Repubblica 17/3/2013, 17 marzo 2013
Intervista a Guido Ceronetti
Vado a trovare l’Apocalisse che se ne sta in due modeste stanze di un sobrio palazzo di Cetona. È qui che Guido Ceronetti da molti anni vive. Ogni tanto torna a Torino, dove è nato nel 1927, ma è la piccola città toscana che ha eletto a misura del proprio vivere. La cortesia di quest’uomo è delicata come un origami. Mi offre tè giapponese che gentilmente rifiuto (troppo complicata, penso, in quel momento la preparazione). Lo seguo lentamente nella stanza da letto. Sbircio tra i tanti libri impilati e noto alcune opere di Jules Verne, tra cui spicca un saggio dedicato all’esoterismo dello scrittore francese.
Ceronetti preferisce sdraiarsi. Da quella posizione orizzontale, che gli lenisce i dolori della schiena, parla con dolcezza e distacco. A volte sembra che sussurri. È un uomo che ha fatto della mitezza la sua furia. Della fragilità la sua forza. Dell’assenza di idillio la sua filosofia. Poeta, traduttore, scrittore, marionettista (un suo spettacolo sarà al Teatro Argentina di Roma il 17 giugno) ha sottomesso l’occulta ferocia delle parole come un domatore le sue tigri. Il suo pensiero sembra un vasto territorio frastagliato come i margini di una ferita. E il suo stile intriso delle onorate lacrime della rabbia.
Viviamo tempi di ira e di frustrazione. Le è mai accaduto di arrabbiarsi?
«È uno stato che appartiene alla vita. Le leggi possono incanalare la rabbia e perfino temperarla. Ma non possono abolirla. E in me si mescola con gli acciacchi. Con questa scoliosi che mi divora come un drago. Oggi la mia vecchiaia è un chiodo piantato nella carne. Gli anni che passano sono dolorosi. E pieni di solitudine».
Nel suo caso penso l’abbia in larga parte scelta più che subita.
«È vero, ma ne soffro e mi indigno. Sono ancora attraversato da un’energia combattiva che è data dal furore dell’indignazione. Se mi togliessi di bocca anche l’orrore della vecchiaia mi resterebbe ben poco. E invece essa è un movente, in un certo senso una forza. Ho ancora la forza di indignarmi, di arrabbiarmi, di disperarmi: dispero ergo sum».
Ma contro chi si indigna?
«Me la prendo con la vita. Vai al fondo è trovi quella. Me la prendo con Dio, come Giobbe. Cosa posso fare? Dice lo stoico Epitteto, al quale avevano rotto una gamba: “Cosa posso fare, io vecchio storpio, se non lodare Dio a mio modo” »?
Dio ci mette di fronte alla nostra esasperazione?
«Mi indigna quella teologia che lo vede come un Dio provvidente o magari un Dio che vorrebbe ma non può. Chiunque di noi vorrebbe ma non può. Rifiuto l’idea di un Dio che ti è vicino come una brava infermiera che però non può fare più di tanto, o al massimo cambiarti le lenzuola. La Bibbia non è il mio testo sacro, anche se egualmente ne avverto la sacralità».
Da dove la ricava?
«Dalla sua capacità di assorbire l’urlo del mondo. L’urlo di dolore di Geremia è quasi tutto ululato. Giobbe ulula. Isaia anche. Quindi è uno strano testo sacro fatto di disperazioni, fallimenti e di un’implacabile fede in un Dio che non risponde».
Un Dio sordo, ma anche che comanda e ordina.
«Certo, legifera come il Dio coranico che non è mai debole, e calza come un guanto il Dio di Giacobbe».
Il cristianesimo attenua tutto questo.
«Per forza, c’è la mediazione del figlio che avvicina Dio all’uomo. Ma la mia vicinanza al cristianesimo è eretica. O meglio gnostica. Sono per un Cristo meno palpabile e reale di quello che si vede in giro».
L’impalpabilità avvertita è il primo passo verso il misticismo?
«Nessuna visione mistica ha a che vedere con l’anima razionale. Siamo fuori dalle mura della ragione. Amo, per esempio, Santa Caterina da Siena e penso che la sua tremenda mistica del sangue faccia parte dell’esistenza stessa del pensiero. Ne avverto stilisticamente la presenza. Qualcosa nei miei scritti ho messo che pensavo venisse ex alto. Siamo solo degli strumenti. Anche i geni lo sono. Anche Beethoven lo era. Marionette di un grande burattinaio, per dirla con i contenuti del mio teatro».
Cos’è per lei la marionetta?
«È mia madre, nella forma che il teatro offre».
Un’esperienza generatrice?
«Certamente importante e fondamentale, non so neppure quanto. Ma è così».
La relazione materna rende tutto più luminoso e senza quelle asprezze e quelle imposizioni che provengono dalla figura paterna.
«Le marionette sono state il latte materno. Mammelle da cui ho succhiato».
E suo padre: che rapporto ha avuto? Di vicinanza, sospetto, indifferenza...
«Regolato da un sentimento di forte oppressione. Niente di speciale. Pretendeva di indirizzarmi. Poi si è placato. È stato fortunato perché ha avuto una vecchiaia serena senza nessun timore della morte. Un buon esempio».
E lei la teme?
«È un evento atteso. Soffro molto di più la vecchiaia che il pensiero che essa finisca. Nella Bhagavadgita si legge: chi pensa a me in quel momento viene a me. Ed è una consolazione altissima. Anche Kafka nei Quaderni di ottavo, che sono tutto un presagio e anche un oltrepassamento della morte, annota che la morte è come trasferirsi da una stanza all’altra di un ospedale, a meno che nel corridoio non si incontri il Signore che dice: no, questo viene con me».
Cos’è esattamente la Bhagavadgita?
«È un poema sacro che fa parte del Mahabharata. Lo porto con me, specialmente quando devo affrontare qualche prova fisica. Fosse pure l’estrazione di un dente senza anestesia. Anche per una piccola ombra questi testi vedici mi danno illuminazione in abbondanza».
E il cristianesimo?
«Il suo sfaldamento apre scenari nuovi. Le eresie stanno di nuovo alzando la testa, specialmente quella più temuta dalla Chiesa: la catara, dualista e manichea».
La lotta tra il bene e il male.
«Scrive Arthur Rimbaud in Une saison en enfer: “Le combat spirituelle est aussi brutale que la bataille d’hommes”».
Per parlare di una battaglia tra bene e male occorre sapere cosa è l’uno e cosa è l’altro. Non sì è smarrita questa capacità?
«Forse questo spiega perché mi sono a lungo occupato di crimini e delitti».
Cosa l’attrae di un omicidio?
«Mi affascina indagare il male e la condanna dell’uomo al male. Mi sembra che sia un inevitabile cuore di pensiero. In un certo senso mi ritengo un criminologo. Ho perfino un vasto archivio artigianale di casi importanti: dai delitti di Villarbasse a quelli efferati della banda Manson».
Non c’è un male più metafisico che va oltre i casi di cronaca nera?
«Tutto viene dall’impalpabile. Da quel male oscuro che avvolge l’anima umana e poi sbocca in qualcosa. Il luogo comune per cui siamo artefici del nostro destino è una solenne banalità».
Non siamo liberi di decidere?
«Su qualche cosetta. Magari su che cosa mangerò stasera deciderò io».
Che ne è della libertà?
«Una gran questione, come diceva Alessandro Manzoni quando gli chiedevano: lei crede nei miracoli? Quasi niente abbiamo capito. E per capire il bene e il male occorrerebbe saccheggiare l’albero dell’Eden».
Che ne è della conoscenza?
«Questi ultimi secoli sono stati terribili per la capacità umana di comprendere. Tutto è fatto per farci perdere il sentimento di quello che siamo, per distrarcene, per farcelo dimenticare. Un gas anestetico si va spargendo. E il male non è banale come voleva la brava Hannah Arendt. Come non è banale il male che a volte la fotografia e il cinema hanno testimoniato».
C’è una sua necessità?
«Certamente. Mi preoccuperei se fossimo immersi interamente nel bene. Un paradiso inalterabile fa più paura dell’inferno. Ho vissuto tutta la vita con questi pensieri. E la scoliosi è una bella prova visibile di aver portato peccata mundi. Mi sento come un angelo ferito».
A proposito di cinema che rapporto ha con questo mezzo?
«L’ho adorato. Avrei voluto fare il regista. Poi qualcuno ha spostato la marionetta su un’altra scena».
Cosa l’affascina del cinema?
«Il suo lato miracoloso, quel mondo di ombre che ci avvolge come fiamme. Ho amato alcuni film, al di là del genere: Dies Irae e Mezzogiorno di fuoco, Les enfants du Paradis e L’angelo sterminatore. Senza dimenticare M di Fritz Lang. La confessione dell’assassinio – con la faccia di Peter Lorre – che dice: “Non voglio, non posso, io devo, ich muss”, è impressionante. Pochi, come Lang, hanno saputo indagare il male attraverso il cinema».
Perché questa ossessione per il male?
«Perché ho amore per le esistenze e le loro sofferenze. Un sentimento totale che nasce dalla nostra condanna, dalle catene che non sappiamo o non possiamo rompere».
Di quale amore parla?
«Della compassione, il solo amore in grado di muovere le montagne».
Non pensa che la compassione sia un po’ poco per una nave che affonda e lascia liberi gli spiriti animali?
«Siamo come sul Titanic. Ci sono atti di eroismo e di codardia. C’è l’orchestra che suona e chi piange mentre la nave va giù».
Si aspettava le sorprese di questo nuovo secolo?
«No. Non mi aspettavo di vedere catastrofi ambientali, non mi aspettavo le torri gemelle, né le dimissioni del papa. Cosa possiamo fare noi poveretti se non tentare di decifrare il cifrato? Ci riusciremo? Dubito. Abbiamo una politica orrifica. Ma in tutto questo c’è un senso che ci sfugge e che magari ritroveremo».
Trent’anni fa lei raccontò questo Paese. Lo percorse in lungo e in largo, con la corriera, a piedi, in treno.
«Fu un viaggio iniziatico. Ma qualcuno lo avrà capito? Ho raccontato tutto ciò che è andato perso. E quando sento la metafora del “Bel paese” mi cascano le braccia. Occupiamoci, piuttosto, della terribile crisi in cui versa la lingua italiana».
La sorprende che in questo Paese i comici abbiano un futuro?
«La presenza comica è diventata un deus. Se da lì venisse la salvezza vorrebbe dire che ci giunge dall’impensato. E forse sarebbe perfino possibile ».
Di quale salvezza parla?
«Quale salvezza in questa perdizione? Non lo so. Certo non può venire da una parola come “ripresa” che non ha più senso. Da un peggioramento di tutto? Non lo so. Si parla di rifondare la politica. Bene. Ma per trasformare un evento elettorale in una Bastiglia demolita bisogna avere il senso messianico dell’Ottantanove».
E lei non lo vede, ovviamente.
«Sono come l’ebreo ortodosso: il messia non è venuto, non verrà ma sta venendo. E poi c’è il rabbino che si affaccia alla finestra: ma come il messia è venuto? Io non vedo nessun cambiamento. Anch’io sto alla finestra perché non posso fare altro. Non partecipo a quest’orgia di parole. Però non escludo niente. Se questa è una speranza, giudichi lei».