Anna Bandettini, la Repubblica 17/3/2013, 17 marzo 2013
EUGENIO BARBA
Da più di mezzo secolo vive in Scandinavia, ma è rimasto un uomo del sud. «C’è il sole, stiamocene all’aperto», esorta Eugenio Barba scegliendo la più assolata tra le panchine del giardinetto della Garbatella, all’uscita da un incontro di tre ore, affollato e partecipato, con gli studenti dell’Università Roma Tre. Settantasette anni, la bella faccia segnata dal sorriso, la pelle scura da pugliese doc, il vezzo (ma lui non lo chiamerebbe così) dei piedi nudi nei sandali francescani anche d’inverno, Barba è considerato il maggior regista teatrale europeo con Peter Brook, Peter Stein, Luca Ronconi, il più rivoluzionario e sperimentatore. Un maestro che ha passato la vita a mandare all’aria il piccolo mondo del teatro ufficiale, conosciuto e amato in tutti i continenti. Cominciò nel ’64, quando a Oslo fondò l’Odin Teatret, oggi considerata una compagnia di culto, poi si trasferirono tutti a Holstebro, in Danimarca, lavorando con pudore e audacia a rompere le consuetudini della recitazione, con spettacoli più vivi e moderni, distaccati da ogni altro genere: nella straordinaria stagione teatrale degli anni Sessanta- Settanta La casa del padre, Come and the Day Will Be Ours, Il vangelo di Oxyrinco segnarono il cuore degli spettatori e dimostrarono che era possibile usare il teatro per vivere, per parlare della realtà e per cambiare se stessi. Ancora oggi l’attività di Barba e dell’Odin — venticinque membri da dieci diversi paesi, alcuni provenienti dal nucleo «storico» di attori delle origini — è incessante, contagiosa, sempre fuori dalle certezze del successo commerciale: spettacoli e “baratti”, corsi e riviste, libri e film, video didattici, una scuola sui linguaggi espressivi nelle diverse culture, l’International School of Theatre Anthropology (Ista). L’Odin lavora con i bambini, gli anziani, gli emigranti, organizza festival, mostre, concerti, intessendo una rete di relazioni nel mondo che né le mode né il tempo sono riusciti a interrompere. Solo a Roma fino a ieri sono stati ospiti per un mese di ben undici realtà diverse, dall’Auditorium Parco della Musica al Vascello, portando in scena La vita cronica, il nuovo struggente spettacolo, una bella occasione per vedere artisti da sempre al centro del rinnovamento teatrale internazionale.
Quando Barba cominciò a lavorare il solo teatro che si vedeva sui palcoscenici era convenzionale, noioso. «Io ero un ragazzo italiano immigrato che si muoveva su un territorio sconosciuto », racconta. E la sua avventura sembra l’incipit di un romanzo. «Avevo frequentato la Nunziatella a Napoli. Mio padre era militare, avevo sempre pensato di fare anch’io quella carriera. Ma alla fine dei tre anni di collegio militare mio fratello mi aprì gli occhi: “Eugenio, l’Italia ha perso la guerra, le colonie non ci sono più, l’esercito italiano nella storia militare europea è mediocre: vuoi finire a Brescia o a Siracusa a insegnare alle reclute a marciare?”. Mi convinse». A portarlo, appena diciottenne, nel nord Europa fu l’amore: una ragazza, incontrata nel ’54 durante una vacanza in Svezia in autostop. «Volevo vivere con lei, ma a Roma, abitavamo con mia madre rimasta vedova a casa di suo padre ammiraglio, severissimo. Fu proprio mia madre, a incoraggiarmi ad andar via. Così cercai lavoro in Norvegia, perché a Stoccolma era impossibile ottenere il permesso, e poi gli italiani godevano di pessima reputazione dopo il fascismo. Erano passati sì e no quindici anni dalla fine della guerra, i ricordi erano ancora caldi. Dicevano che avevamo usato i lanciafiamme contro la popolazione civile in Abissinia, e io che alla Nunziatella avevo studiato che in Africa i nostri soldati si erano battuti per infondere la civiltà...». Il suo primo posto fu da operaio saldatore in una officina dove il padrone lavorava insieme ai suoi operai, puliva con loro i locali prima di andare a casa, chiedeva consigli. Si chiamava Eigil Winnje: «Quando poi fondai l’Odin Teatret fu a lui, al suo senso della disciplina, che mi ispirai». Secondo lavoro, marinaio su una nave norvegese. «Volevo andare in India ma non avevo soldi. Mi imbarcai. A bordo se mi cucinavo qualcosa in cambusa, arrivava un marinaio norvegese e mi portava via il piatto. Ora, c’erano due modi di affrontare la cosa: o stavi zitto, come i portoghesi e i cinesi, oppure reagivi e ti prendevi un sacco di botte. Ma dopo un po’ di volte i norvegesi si rompevano le scatole e ti lasciavano in pace. Di quel periodo porto ancora qualche cicatrice sul corpo, ma è così che ho imparato che l’essere umano ha due anime: quella di angelo pronto a sacrificare la propria vita per un altro o per un ideale, e quella di demonio che scarica sull’altro la propria violenza».
Barba sognava di fare il pittore, o lo scrittore. A decidere che la sua vita sarebbe stata il teatro è l’incontro con Jerzy Grotowski, nel ’61, in Polonia. I primi anni furono duri. Si lavorava seguendo strade non tracciate. Barba era un autodidatta, sostenuto dall’intelligenza e dalla caparbietà. Imponeva agli attori la dura disciplina di esercizi fisici quotidiani per rompere i cliché della recitazione accademica, ma nessuno sapeva dove avrebbero portato. Oggi quell’apprendistato è alla base del lavoro dell’attore, ma allora era come muoversi in un labirinto. «Avevo l’impressione di sbagliare, e volevo che tutto restasse tra le quattro mura, tra me e i miei compagni. Il training fisico che quotidianamente facevamo agli occhi degli altri era una pazzia. Lavoravamo per otto, dieci ore al giorno, raggiungevamo livelli di fatica inimmaginabili. Persino Grotowski, che comunque fin dall’inizio avevo eletto a “mio maestro”, nonostante fossimo quasi coetanei, faceva training al massimo per una o due ore al giorno. Il training fisico non è una ginnastica. Ci sono voluti anni per capire che recitare non è eseguire qualcosa ma reagire a qualcosa, e quanto sia importante trovare la strada per scatenare nell’attore l’impulso a reagire. Oggi, con cinquant’anni di esperienza alle spalle, posso dire che il training sviluppa un dialogo intimo con la creatività dell’attore di cui lui stesso non è consapevole perché l’attività fisica apre la possibilità di reagire con tutto il corpo, con parti del cervello normalmente in letargo. Così si è temprato l’Odin».
I cinquant’anni, nel 2014, saranno per il gruppo l’occasione di misurarsi con la propria storia. Si annunciano festeggiamenti a Holstebro, dove Barba ha sempre continuato a vivere con la sua famiglia. «Judy, mia moglie, ha accettato questa mia ossessione, il teatro, anche quando c’erano cose che non le andavano giù. Grotowski, per esempio. Non le stava simpatico, lo trovava un egocentrico. E quando abitava da noi, per lunghi periodi, lei ne soffriva, ma non me lo ha fatto mai pesare. Fu lei a mantenermi i primi anni dell’Odin. Poi, quando sono arrivati i due figli, ha preferito prendersi cura di loro. Oggi siamo nonni, consapevoli di aver dovuto cambiare molto il modo di immaginare la nostra relazione in tutti questi anni”. Cinquant’anni possono logorare anche il più solido sodalizio. Rimpianti? “No, nell’Odin ognuno ha avuto le sue motivazioni profonde per rimanere. Personalmente non potrò mai dimenticare la generosità e la lealtà dei miei compagni, ragazzi che seguono uno straniero di dieci anni più anziano e che non sa spiegare che teatro sta facendo. Devono avere intuito che il nostro modo di praticare il teatro aveva la forza di cambiare ognuno di noi. Certo, cadute ne abbiamo avute, ma il mio motto è sempre stato “sette volte a terra, otto volte in piedi”. Di recente il ministero della cultura danese ci ha tolto metà delle sovvenzioni. Ci sono periodi in cui non riusciamo a pagare gli stipendi, ed è allora che la tenuta del gruppo rischia di sbriciolarsi. Ma ognuno di noi sa che il teatro è necessario innanzitutto a noi stessi. Che la politica non si occupi della cultura è naturale. E abbiamo chiara la sensazione di vivere, sempre, su una corda tesa su un baratro. Un paio di anni fa è morto Torgeir Wethal. Aveva fondato l’Odin insieme a me. Perdere una persona cara ti ricorda che oggi hai e domani non più. Allora ogni giorno, ogni momento diventa un mezzo regalo. Basta sapere che quel mezzo regalo fiorisce al tempo stesso restando insieme e nella solitudine, che è la condizione in cui vive ogni persona che fa teatro».