Emiliano Morreale, la Repubblica 17/3/2013, 17 marzo 2013
GIUSEPPE ROTUNNO L’OCCHIO DEL CINEMA
Ancora oggi che sta per compiere novant’anni, Peppino Rotunno ogni mattina prende la metropolitana e alle sette e mezza del mattino si presenta nel suo ufficio del Centro Sperimentale di Cinematografia, dove insegna direzione della fotografia. È uno dei “maghi della luce”, uno dei più grandi, che con la loro maestria nell’illuminare i set hanno contribuito alla ricchezza visiva del cinema italiano: una scuola che tutto il mondo ci invidiava. Oltre settant’anni sui set (prima volta La corona di ferro di Blasetti, nel ’41), direttore della fotografia dal 1956 (Pane amore e…). Decine di classici del cinema italiano portano la sua firma: in bianco e nero come La grande guerra e Rocco e i suoi fratelli, a colori come Fantasmi a Roma, Cronaca familiare, Il Gattopardo, Roma, Amarcord. E poi La Bibbia di Huston, Conoscenza carnale, All That Jazz di Bob Fosse, e titoli di Pasolini, De Sica, Altman, Gilliam, Pollack...
Rotunno ha scoperto tardi la sua vocazione di docente, alla fine degli anni Ottanta, quando è stato chiamato a insegnare da Lina Wertmüller. Negli ultimi anni, altra sua grande preoccupazione è stata la supervisione del restauro di classici del nostro cinema. Lo incontriamo nella sua aula, gentile e reattivo, poco interessato a teorizzare, pieno di voglia di raccontare. Romanissimo (è nato a piazza Pia il 19 marzo 1923), da ragazzo lavorò come elettricista, operatore, quindi fotografo. «A diciannove anni» racconta, «quando mi arrivò la lettera di richiamo alle armi ero con Roberto Rossellini. Lavoravo come assistente operatore per L’uomo della croce. Rossellini mi aveva accolto quando ero stato cacciato da Cinecittà perché ero troppo insubordinato. Mi accompagnò alla stazione e mi disse con un tono un po’ buffo: “Tornerai. E diventerai un grande direttore della fotografia” ». Intanto, però, deve accontentarsi di fare il cineoperatore sul fronte greco. A dirigere le riprese del suo gruppo c’è il documentarista Michele Gandin, col quale Rotunno collaborerà anche nel dopoguerra. «Avevamo fatto le riprese di tutta la costa di Cefalonia, e il comandante dell’isola era un altro Gandin, lo zio di Michele. Mentre continuavamo il giro della costa arrivò la notizia della caduta di Mussolini, e allora cercammo di rientrare a Cefalonia da questo zio. Per fortuna non ci riuscimmo, perché i nazisti poi, come è noto, fecero una strage di militari italiani. Tentammo successivamente di andare incontro ai russi, ma venimmo catturati dalle SS. Da prigioniero, finii a fare il proiezionista in una cittadina chiamata Hattingen». Vennero liberati dagli americani, e il giovane cineoperatore imparò così l’inglese che gli tornerà presto utile. Rotunno, infatti, è uno dei professionisti italiani che più hanno lavorato con le produzioni hollywoodiane. E anche con quelle “americane” di Dino De Laurentiis, la cosiddetta “Hollywood sul Tevere”. «Mi ricordo di Jovanka e le altre del povero Martin Ritt. Lo abbiamo difeso con i denti, io e Silvana Mangano, contro De Laurentiis che arrivava sul set con dei bigliettini in cui spiegava al regista cosa fare, in maniera un po’ umiliante. Io e Silvana facemmo un vero e proprio sciopero». Ha lavorato tanto in un cinema moderno, coevo delle nouvelles vagues ma al tempo stesso diverso, e ha incrociato l’ultimo grande divismo: oltre ai nostri Mastroianni, Loren, Magnani ha illuminato Ava Gardner, Robert Mitchum, Sean Connery, Jessica Lange, Burt Lancaster, perfino Marlene Dietrich. «Con lei ho lavorato in Montecarlo, nel 1956, mancava da tempo dai set e impazzì perché la tecnica era cambiata, e non sentiva più il calore delle lampade. Era abituata a disporsi seguendo il calore sul viso, e quindi sapeva esattamente come mettersi per ricevere la luce migliore. Ma ormai le lampade erano cambiate, non facevano più così caldo, per cui si è dovuta fidare di me».
Nonostante il suo prestigio internazionale (dal 1966 è membro onorario dell’American Association of cinematographer), Rotunno rimane però soprattutto l’uomo che ha creato le luci dei capolavori di Visconti e Fellini, con il quale ha lavorato da Toby Dammit (episodio di Tre passi nel delirio del 1965) a E la nave va (1983). «Fellini aveva sempre paura che qualcosa potesse sembrare troppo vero. La plastica che raffigurava il mare, per esempio, ci teneva che si vedesse proprio che era di plastica. Io invece cercavo una via di mezzo, in modo che il pubblico potesse almeno un po’ crederci. Prima di girare Amarcord mi portò a Rimini a conoscere i posti, i parenti, gli amici, gli osti, anche se poi il film era girato a Cinecittà, e il mare era quello di Ostia e Fiumicino. A proposito, c’è un dettaglio divertente: nella scena della partenza per andare a vedere il Rex, al tramonto, si vede il sole basso sul mare. Ma in teoria, a Rimini, il sole sul mare c’è all’alba. Lo feci notare a Fellini e lui, un po’ stizzito: “Sto qui apposta!”. Disse che tanto non se ne sarebbe accorto nessuno, però secondo me gli era sfuggito». A passare qualche ora con questa memoria storica del grande cinema italiano (ma anche del cinema popolare e di genere) gli aneddoti e i personaggi si susseguono. Come quel mattacchione di Mario Soldati che a Lucca, sul set della Provinciale, si presenta in mutande: «Allora io feci segno a tutti di far finta di niente. Lavoravamo come se niente fosse, e dopo un po’ lui scoppiò. “Ma insomma! Cosa devo fare per farmi notare?». O Orson Welles, incontrato come attore, poi come regista dell’Otello, e infine per un progetto mai realizzato: Operation Cinderella con Anna Magnani, commedia su una troupe americana che veniva a girare in Italia. A fronte di questa storia, intorno agli allievi che girano ovviamente in digitale, viene spontaneo chiedersi cosa ne pensi Rotunno delle nuove tecnologie e della scomparsa progressiva della pellicola. «Secondo me il digitale non è ancora all’altezza dei nostri occhi come la pellicola». E ricorda di aver girato uno dei primissimi esperimenti di film in digitale, Giulia e Giulia (1987): «All’epoca gli americani erano molto diffidenti, e non molto preparati. Sono dovuto andare in un laboratorio in Giappone, con un tecnico italiano bravo, e anche i giapponesi erano pronti fino a un certo punto». Per questo spirito sornione e pratico, da grande artigiano, il segreto sembra essere quello di una sensibilità pronta a cogliere il mondo dei registi più diversi, donando loro una dimensione visiva indimenticabile, ma senza prevaricare mai. Molto lontano dai divismi che oggi sfiorano anche certi suoi colleghi. «Quando all’uscita di un film sento parlare della fotografia», conclude sorridente «io mi offendo, perché vuol dire che ho distratto il pubblico dal racconto. La fotografia serve al film: e, per così dire, se serve brutta, allora dev’essere brutta. Purché sia efficace e vada incontro alla storia. La fotografia permette di parlare tante lingue, è poliglotta».